prof. Umberto Russo
PREFAZIONE AL VOLUME "SA' MMALINDINE" (1983)
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RICORDANDO GIUSEPPE TONTODONATI (1989)
Il ricordo di Giuseppe Tontodonati è legato, per me, ad alcuni piacevoli momenti trascorsi nella lettura delle sue pagine o nell’ascolto delle sue dizioni: credo che questa affermazione possa costituire il riconoscimento più bello per un autore che si proponeva di offrire agli altri, attraverso la poesia, un motivo di autentico godimento spirituale.
Anche ora che non è più tra noi con la sua giovanile esuberanza e la sua cordiale bonomia, rileggere i versi che ha lasciati significa assaporare di nuovo quel piacere, evocare quei sentimenti che ci comunicava — segno indubbio della persistenza della loro validità nel tempo.
A stimolare la vena poetica di Tontodonati furono, credo, i casi della vita che lo portarono a vivere a lungo lontano dalla terra natia: il bisogno di riattingere in qualche modo questa, l’urgenza dei ricordi, in una parola, la nostalgia alimentarono il vario flusso di ispirazioni che si tradussero nelle raccolte poi compendiate nel Canzoniere d’Abruzzo.
Tuttavia egli si rese abbastanza consapevole di questo processo genetico sì da non cadere nelle pastoie della mera evocazione; se produsse parecchie (ed anche sentite, addirittura sofferte) liriche tramate di ricordi e di struggente nostalgia, non volle limitarsi a questa tematica: la sua pittura del piccolo mondo abruzzese che amava coglie anche altri aspetti, instaurando con esso un rapporto complesso e variato.
Si pensi, ad esempio, alle descrizioni paesistiche, così vive e puntuali, alle scorribande nel folclore — dai mossi ritratti di feste e costumanze alle gustosissime tiritere di nomignoli —, oppure a quei personaggi tipici, ormai entrati nel catalogo delle più celebri figure del pantheon dialettale abruzzese, da lui creati con una straordinaria genialità d’invenzione.
Penso specialmente a quel Dommusé, che domina con la sua irruenta sensualità lo sfondo dell’aspro paesaggio della Maiella, personaggio degno di un Pulci per le sue dimensioni esasperate e grottesche.
La vena di Tontodonati, insomma, è stata ricca di molte suggestioni, sicché non è azzardato dire che la sua opera attende ancora un’analisi completa di tutte le sfaccettature che presenta. C’è da sperare che il ricordo di lui non si esaurisca in un’affettuosa commemorazione delle sue grandi doti umane, che ancora, giustamente, ci toccano col rimpianto della perdita, ma si trasformi presto in un approfondimento critico della sua opera, perché questa sia meglio e più largamente conosciuta entro e fuori dei confini dell’Abruzzo.
- tratto dalla rivista “La Regione” Novembre 1989 -
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PROGRAMMA UNIVERSITA' DELLA LIBERA ETA' (A.A. 2006-07) - COMUNE DI FRANCAVILLA A MARE
23 Febbraio 2006
LA POESIA UMORISTICA IN DIALETTO
Letture di Modesto della Porta e Giuseppe Tontodonati
Prof. Umberto Russo
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LA FIGURA DI PAPA CELESTINO V
NELL’OPERA POETICA, DI GIUSEPPE TONTODONATI
di Umberto Russo (Introduzione al volume "Sam Bbietre Céle" di G. Tontodonati (2007) Ed. Assoc. Culturale La Panarda di Rosciano (PE)
Sebbene la produzione poetica in dialetto di Giuseppe Tontodonati fosse resa nota al pubblico dei lettori solo quando egli aveva già superato i cinquanta anni (era nato a Scafa nel 1917) e potesse perciò apparire frutto di un passatempo senile, pure suscitò nella critica più accorta una risposta cautamente positiva e, sorprendentemente, I'attesa di ulteriori prove da sottoporre a verifica: ciò che, per solito, capita all'opera prima di qualche promettente giovinetto.
Le sue Storie paesane, infatti, apparse sul finire del 1968 - "un singolarissimo libro" le definì subito Giuseppe Rosato -, avevano bisogno di una conferma, data la loro "eccezionalità", sicchè per lo stesso critico la pubblicazione, sei anni dopo, della 'ballata abruzzese Dommusè poteva fungere, appunto, da attestazione di "un impegno serio" del poeta, della sua "persistente fedeltà" ad una scelta non solo linguistica, ma latamente tematica, insomma del possesso di una personale poetica.
Seguirono altre raccolte: Le Scafe (1976), Terra lundane (1980), Ssa' Mmalindine (1983), finchè, nell'86, tutta la produzione dialettale di Tontodonati fu raccolta e ordinata nel Canzoniere d’Abruzzo (Ed.'La Regione', Pescara): si tratta di una ripubblicazione integrale della sua opera, che rispecchia, in un certo senso, la volontà ultima dell'autore, sicchè mi sembra opportuno attenermi a questo testo nel tracciarne un profilo, sia pure sommario.
Ciò non mi esime dal segnalare che, dal punto di vista genericamente formale, nel Canzoniere sono evidenti rimaneggiamenti strutturali e revisioni linguistiche che Tontodonati intese apportare ai testi già pubblicati: sono aspetti che non spetta a me illustrare in questa sede, ma dai quali non potrebbe prescindere chi volesse affrontare adeguatamente un'analisi critica complessiva della sua opera; a me basti ribadire che, per le ragioni dianzi esposte, la mia indagine si basa sull'editìo ne varietur identificabile nel Canzoniere d’Abruzzo, apparso un paio di anni prima della morte dell'autore (Bologna, 1989).
Nella ripartizione interna del Canzoniere si individuano tre blocchi, dei quali i primi due sono esplicitamente definiti dall'autore come “Trilogia prima" e "Trilogia seconda", riconoscibili anche dalla numerazione progressiva (in cifre romane) dei componimenti: nella "prima" si giunge fino a CXIV, per la "seconda" si riprende da I e si va fino a CLXV. Vero è che quest’ultima numerazione continua anche nel terzo blocco e prosegue fino a CCXXI, ma se si vuole rispettare il significato del termine 'trilogia', bisogna considerare a se stanti le ultime due sezioni della raccolta, intitolate rispettivamente Lu piccule Resurgemende e Framminde, quest’ultima anche datata "1984-86", dunque segnalata implicitamente come inedita.
Una particolare scansione della raccolta è costituita dall'inserimento di "lettere" a conclusione o in apertura delle sezioni; i destinatari sono congiunti e amici dell'autore, che sembra voler sottolineare in questo modo il carattere prevalentemente colloquiale della sua affabulazione poetica. Nelle "lettere", denotate da una scelta metrica difforme dal resto del Canzoniere (in esse l'ottava si oppone alla grande prevalenza, altrove, del sonetto), la tematica si orienta verso I'attualità, discussa ironicamente nei suoi aspetti salienti, spesso sconcertanti o trasgressivi, oppure rievoca dal passato personale figure e consuetudini, magari poco commendevoli o addirittura lubriche. La funzione di questi intermezzi, piuttosto che di raccordo tra le varie parti del Canzoniere, sembra essere quella di consentire all'autore pause di riflessione sull'evolversi dei costumi, quasi momenti didascalici da intrecciare nella distesa trama narrativa del contesto.
Ma è ora il caso di individuare i percorsi tematici che attraversano l'opera poetica di Tontodonati: si tratta di alcuni motivi di fondo che, pur variando nelle specifiche situazioni, appaiono legati strettamente alla sua creatività, quindi si costituiscono come essenziali per tracciare il profilo dell'autore.
Il primo di essi - primo sia dal punto di vista genetico, cioè come elemento nativo della stessa attività poetica, sia per la consistenza delle occasioni nel corpus - è certamente il legame di sentimento e d'ispirazione con la terra d’origine, quell'Abruzzo avvertito da Tontodonati come riferimento saldo, persistente, inobliabile del suo io esistenziale e poetico. Si potrebbe dire che senza questo vincolo affettivo e memoriale non sarebbe mai nata la sua produzione nè sarebbe sorta la sua stessa vocazione alla creatività letteraria. Ed è perciò un elemento che si scopre non solo costitutivo, ma - si direbbe - onnipresente nella sua poesia.
Da questo dato originario si sviluppano, infatti, due consistenti tematiche, a volte tra loro coniugate, altre volte distinte: per un verso, I'ampia disponibilità dell'autore alle pause descrittive, prevalentemente indirizzate alla pittura del paesaggio, all'esaltazione delle bellezze naturali o alla rappresentazione icastica di certe peculiarità dell'ambiente 1; per altro verso, l'evocazione dei ricordi, tanto personali, quindi immediati e debitamente circo- stanziati 2, quanto di più ampia portata, cioè riferibili a una comunità e perciò filtrati da una sorta di memoria collettiva, della quale il poeta si assume la funzione di portavoce e cronista 3.
Entrambe le direttive si arricchiscono, in taluni casi, di orizzonti più ampi: paesaggi di luoghi esterni all'Abruzzo o evocazioni di vicende accadute altrove non mancano nel Canzoniere 4, ma quasi sempre è un raccordo con la regione originaria, di natura associativa o per similitudine. E ciò conferma la sostanziale "abruzzesità" dell'opera di Tontodonati.
La disponibilità a fare del ricordo la materia poetica costituisce la radice di un'altra tematica significativa , quella che s'incentra nella celebrazione di fatti e personaggi storici, distendendosi tuttavia per un ampio arco cronologico: dalle origini dell'uomo alle antichità italiche e romane (5), dal Medioevo all'età moderna (6), fino alle vicende risorgimentali, I'autore rievoca in molte occasioni questo passato, atteggiandolo in forme discorsive e spesso ironiche, come a voler imbastire una storia popolare dalle finalità divulgative.
Sotteso a questo apparente obiettivo è però un intento moralistico, che si sostanzia nella volontà di trarre dalle vicende esemplari della storia un monito, un avvertimento a non ripetere gli errori, a trarre insegnamento dai comportamenti positivi degli altri 8.
E’ lo stesso atteggiamento mentale che si scopre nel fondo di molti altri componimenti, riferibili a 'storie' recenti, cioè a narrazioni, spesso sapide e intriganti, che hanno per protagonisti uomini e donne personalmente conosciuti dal poeta 9; se anche in questo caso opera la sua capacita evocativa e affabulatoria, è evidente che il rapporto risulta diverso: non si tratta più di prelievi da sedimentazioni meramente culturali, o addirittura scolastiche, bensì da esperienze dirette, personali, dunque più coinvolgenti. Anche se non va dimenticato che pure qui esiste l'elaborazione memoriale, cui vanno aggiunte le componenti sia delle amplificazioni e distorsioni delle voci popolari, sia della ricreazione prettamente poetica, tuttavia la pregnanza della materia risulta cogente, tanto da attenuare di molto, se non obliterare affatto l'intento parenetico.
Del resto, è appunto su questo terreno che fioriscono le espressioni migliori della creatività di Tontodonati, i suoi ritratti di personaggi tipici – Ndunducce 10, Cecore 11, la mitica figura rabelaisiana di Dommusè 12 (tutti dominanti nella "Trilogia prima"), le vecchie parenti di Cannilore 13, e così via - , le curiose vicende di paese evocate con un sorriso venato di nostalgia, gli ambienti caratteristici dove la gente s'incontra, beve un bicchiere, si scambia notizie e motteggi. E’ un mondo piccolo nelle dimensioni, ma grande, complesso e intrigato nelle relazioni interpersonali, nei sentimenti e risentimenti reciproci, soprattutto nella rete memoriale che stringe l'individuo alla comunità cui appartiene.
Ed è proprio da qui che nasce l'ultimo aspetto notevole della poetica di Tontodonati, il suo interesse, non continuativo, ma affiorante di tanto in tanto, per I'attualità sociale, intesa come evoluzione dei costumi e della mentalità, progressiva invadenza della tecnologia, tramonto inarrestabile di certi modi di vivere e di giudicare 14 . La sua sensibilità per questa metamorfosi esistenziale nasce con ogni probabilità dalla stessa maturazione dei propri anni e si atteggia, come sempre avviene nelle generazioni anziane, a rimpianto per quanto scompare e perplessità per quello che va affiorando. Se a volte il suo giudizio può sembrare moralistico, specie quando insiste sul raffronto tra passato e presente, ciò non toglie valore alla sua volontà di partecipare, di intervenire, sia pure solo sul versante della poesia, nel processo storico che lo coinvolge: Tontodonati, insomma, non si ritrae nella sua specola di poeta, ma vuole comprendere ed esprimere una propria opinione su ciò che vede accadere nella realtà che lo circonda.
***
Tra le figure storiche più amate da Tontodonati è certamente il papa Celestino V, al secolo Pietro Angelerii, detto anche Pietro da Morrone in ricordo del suo romitaggio su questa montagna dell'Abruzzo.
In tre specifici settori del Canzoniere d’Abruzzo questo personaggio appare sempre connotato da un'aura positiva di santità autenticamente cristiana: nella serie di Dommusè, in quella di Terra lundane e infine nei Framminde.
Il ricordo di Celestino, definito affettuosamente con la denominazione abbreviata di "Sam Bètre Cele", è inserito tra le avventure attribuite al protagonista di Dommusè, quasi a contrapporre il suo profilo di santo amante della povertà evangelica e rinunciatario al più alto potere terreno a quello del prete avido, spregiudicato, crapulone e donnaiolo impersonato dall'indegno parroco di Roccamorice.
In questa località, ricorda il poeta, Pietro da Morrone acquistò per "ddu'honze d'ore'” una casa da utilizzare come ricovero per monaci e pellegrini. La leggenda narra che in un cunicolo scavato tra le sue fondamenta sia sepolto un tesoro destinato alla Santa Chiesa Romana. Ma questa nascosta ricchezza non sfugge all'avidità di persone rotte a ogni malizia, sicchè Don Musè, alla pari di altri della sua risma - il poeta li definisce "bbrehande" - fa a gara per mettere le mani sul tesoro, e a spese della povera gente, questi manigoldi ingaggiano una vera e propria guerra in quel luogo "ddò frate Cele ce passì da sande". Il contrasto tra i buoni e semplici abitanti del borgo e le prave intenzioni del parroco e dei suoi antagonisti sembra echeggiare anche nell'apertura del sonetto seguente, dove al silenzio che incombe sul paesaggio notturno delle falde della Maiella si contrappone il frastuono proveniente da un misterioso tramestio nella casa di Celestino: sono i predatori che sbattono porte, buttano giù muri e tettoie, affannandosi nella ricerca del tesoro nascosto. E ora tra i timorosi paesani si diffonde la leggenda: quel fracasso è pro- dotto dai vani tentativi del demonio di impossessarsi dell'anima di papa Celestino.
Dopo una digressione narrativa (frequente, invero, nelle raccolte poetiche di Tontodonati) su altre vicende di Don Musè, si torna a parlare della casa di Celestino V nel sonetto CLXXIII. A Roccamorice si sparge la voce che il parroco, senza interpellare i superiori o informare i concittadini, ha venduto la casa di papa Celestino, che in effetti è stata diroccata dal nuovo padrone.
Tutti rimpiangono la perdita di quell'antica memoria che pure era sopravvissuta a fatti di guerra ed eventi naturali ed era stata la meta devozionale di personaggi altolocati e comuni pellegrini. Nel sonetto il discorso si concentra sul comportamento spregevole del prete, illuminato da un fascio di luce negativa, in chiaroscuro con l'ossequio popolare da cui l'edificio era circondato: un chiaroscuro che si trasforma nelle fitte nebbie avvolgenti la montagna, all'inizio del seguente sonetto, come a collocare in uno scenario tipicamente espressionistico I'animo ottenebrato di Don Musè. Questi, infatti, campeggia nel sonetto CLXXIV. "nere come satanasse", impreca contro il popolo dei parrocchiani, cui non basta avere a disposizione i viveri per campare e che invece se la prendono per la vendita di un rudere: "sti ciùcchle vecchie" è infatti definita la casa di Celestino nell'invettiva sacrilega del prete; la religione, per lui, non serve a niente "se mmanghe la prubbènne", cioè se non ci si guadagna, come ben sanno i suoi superiori ecclesiastici, che ipocritamente, anche loro, si uniscono al coro dei suoi detrattori.
Il discorso di Don Musè continua per tutto il seguente sonetto CLXXV, vera e propria requisitoria contro I'alto clero, tanto quello della Diocesi, quanto quello della Curia Vaticana. Don Musè non esita a tacciare di ipocrisia e di avarizia i suoi superiori, che, pur contando a palate le ricchezze disponibili per loro, pretendono di lasciare nell'indigenza " nu povere predde de mundagne", impedendogli di racimolare quel poco che riesce ad assicurarsi. Le due terzine finali hanno tutto il sapore di un'invettiva dantesca:
"La Roma falze de li cardenale,
che dde recchezze pò 'rcupì la terre,
è a ccape de sta màffia senudale.
Acchiùde l'ucchje add ogne sporca huèrre,
ce prèteche I'amore uneverzàle....,
ma senza solde nude I'assutterre...!”
E’ evidente che qui Tontodonati, per bocca del suo personaggio, lascia trasparire un suo personale giudizio, espresso con quella veemenza accusatoria che la finzione poetica gli consente: tanto più chiaro il meccanismo, se si tiene conto del fatto che nella chiusa dell'invettiva Don Musè eccede dal suo caso personale per denunciare i mali della Chiesa (o per meglio dire, degli alti gradi della gerarchia ecclesiastica) in un ambito assai più ampio, anche se la metafora che chiude il sonetto è desunta da un'esperienza decisamente limi- tata nello spazio, con I'allusione al funerale di ultima categoria che nei piccoli paesi è riservato a chi non può pagare.
Nelle sezioni del Canzoniere intitolate Terra lundane e Framminde s'incontrano molti sonetti con riferimenti alle vicende di Pietro da Morrone. Conviene parlarne riordinandone la serie in relazione ai vari momenti della vita del Santo.
Il componimento che accenna alla prima fase di questa, il romitaggio sul Morrone, è il LXXVII, celebrativo, sotto il titolo di San Tumasse da Caramaniche, delle preziose sculture che ornano questa chiesa del centro termale abruzzese. Il suo incipit, infatti, simile a molti altri sparsi nel Canzoniere in forma di frasi esclamative, a significare I'atteggiamento tra evocazione nostalgica e intento elogiativo dell'autore, è appunto: "Oh majistre del- I'arta scarpilline ... ! ". E’ però nella seconda quartina che emerge il ricordo di Pietro Celestino, incluso in un'incidentale che conferisce un'onorevole fama alla montagna da lui prescelta:
"Lu Murrone, che lunghe lu cammine
fu llarche de Fra' Cele e lu papate,...".
L’imprevedibile scelta di Pietro per il soglio pontificio e il suo trionfale trasferimento dall'eremo morronese all'Aquila per la cerimonia d'incoronazione sono i momenti biografici rievocati nel sonetto XCVI, Collemagge, prevalentemente impostato appunto su quell' episodio storico.
Se nelle quartine, dopo aver ricordato che I’Abbazia e I'adiacente chiesa erano state costruite (a partire dal 1287) per volontà di Pietro da Morrone, I'autore si sofferma a celebrare la loro Titolare, la Madonna, "Mamma nostre e di Ggisù Bambine", nei versi seguenti concentra il suo interesse nella descrizione del tripudio popolare e del prestigioso corteo che accompagnarono il viaggio del nuovo Papa verso L’Aquila: nelI'aria un festoso scampanio, che richiama tutti gli abitanti della zona, la cavalcata di Pietro, accompagnata dal re Carlo II d’Angiò in persona, il suo aspetto sereno, benevolo, da vero padre di tutti più che da Pontefice.
Lo stesso motivo, amplificato con particolari di cronaca, impronta il sonetto seguente, che ha il titolo allusivo di Gerusalemme, per ricordare un episodio evangelico analogo, l'ingresso di Gesù nella Città Santa per celebrarvi la sua ultima Pasqua terrena.
Anche Pietro, dopo l'incoronazione a Collemaggio, alla presenza di Carlo II, si pone in viaggio per Napoli cavalcando un asinello bianco, come "nnu redendore". Questa similitudine, o per meglio dire I'assimilazione di Pietro a Gesù Cristo, torna nella seconda terzina, nella quale emerge anche la spiegazione del titolo conferito al sonetto, mediante l'esortazione, venuta dal cielo, a Gerusalemme a spianare le sue mura per accogliere il nuovo Papa. Ciò che più conta per il poeta è il contegno di Celestino V, quel "sorrise... ttuccande" che gli illumina il volto e si riflette come segno di amorosa comprensione su tutti gli astanti. Sicchè la popolazione aquilana, fiera di poter salutare per prima il nuovo Pastore, si accalca intorno a lui, lo acclama, lo segue come in pellegrinaggio, levando lodi a Dio.
E’ in questo sonetto XCVII che la poesia di Tontodonati si esprime con più forza icastica nell'esaltazione della figura di Pietro da Morrone, strutturando il discorso con una grande capacità inventiva: intorno al Papa, del quale sono accortamente poste in risalto l'umiltà, la bontà nativa, si dispongono da una parte i personaggi di autorità, sintetizzati nel re Carlo 11, dall'altra la gente comune, i semplici cittadini dell'Aquila, mentre il cielo è percorso da un mistico canto di esortazione al mondo perchè accolga in pace I'avvento di Celestino.
Della rapida eclisse del pontificato di Pietro da Morrone narra il sonetto LXXIV, dedicato a Roccamorice, un paese posto sull'abisso, in un suolo soggetto a frane e tempeste, ma pure circondato da boschi e montagne incantevoli. Qui, nell'eremo di Santo Spirito, il poeta vede il Papa ormai rinunciatario intento alla preghiera, sofferente, ancora una volta simile a Cristo nell'Orto degli Ulivi. In realtà, la narrazione poetica qui si discosta dalla verità storica: la Rocca di Fumone, dove Celestino V fu rinchiuso per volere di Bonifacio VIII, fu l'ultima sua dimora, sicchè la sua fuga, qui ricordata da Tontodonati al verso 10, non avvenne "da Fumone"; invero, egli tentò di imbarcarsi per la Grecia, ma fu catturato a Vieste, sul Gargano, insieme con alcuni seguaci, e condotto dapprima a Capua, quindi ad Anagni, residenza del suo successore, che decise solo allora di rinchiuderlo a Fumone.
Ciò che conta, tuttavia, è la visione del poeta, l'immagine del Papa fuggiasco che torna stanco, appiedato, braccato dagli sgherri "de lu Prete": si noti come Bonifacio qui non sia designato col suo titolo pontificio, ma con un termine che adombra un senso di disprezzo da parte dell'autore. E conta anche, nella chiusa del sonetto, la silenziosa preghiera di Pietro tra le rocce della montagna abruzzese, la sua sofferenza espressa col sudore di sangue, in contrasto con la violenta, clamorosa persecuzione cui era fatto segno. Qui il poeta ha saputo sintetizzare con molta maestria il dramma di "un povero cristiano", assurto dal romitaggio al soglio papale e tornato alla più umile delle condizioni umane, col solo conforto della fede in Dio.
La celebrazione delia figura di Celestino V si ripropone nel sonetto che decanta la Conca Peligna, ma è intitolato, appunto, Sam Petre Cele: qui nell'ultima terzina si ricorda che, dopo la gloriosa epoca della lotta dei popoli italici contro Roma, quel territorio tornò a splendere grazie all'elezione al pontificato di Pietro da Morrone.
Ultimo di questa serie, il sonetto Storie de Cilistine... è tutto dedicato alla rievocazione della morte del Papa: un canto "a bbas- sa-voce" lo definisce I'autore, come preso da un senso di profondo rispetto per la triste vicenda. Comincia con l'invocare le mura della Rocca di Fumone, luogo del martirio del Santo: ancora una volta, egli viene equiparato a Gesù, dal momento che la sua fine è descritta come una crocifissione. Nella seconda quartina, diviene protagonista il suo crudele persecutore, "chelu lazzarone" di Bonifacio VIII, che ordinò, secondo una certa versione dei fatti, accolta dall'autore, di uccidere Celestino conficcandogli un chiodo nella nuca; la condanna del misfatto prosegue nella prima terzina, quando a Bonifacio toccano l'epiteto di "assassino" e I'accusa di essere stato un papa simoniaco (come, del resto, aveva detto Dante). In contrapposizione a questa sequela di invettive, la chiusa del sonetto torna a un registro celebrativo, con l'esaltazione di "Fra Cele" e delle sue sacre spoglie, circonfuse di gloria. La disposizione chiastica dei fatti narrati conferisce al sonetto una bella compattezza strutturale, nella quale si rilevano le frasi esclamative, quasi momenti di ammirata contemplazione del drammatico, ma glorioso transito di Celestino V.
Nelle sezioni Terra Iundane e Framminde fugaci accenni al Santo del Morrone sono presenti in altri sonetti: in Rocca Calasce (XCV) "Sam Petre Cilistine" è il termine di paragone per le figure di eremiti; nel sonetto CCII, che descrive L’Aquila col suo territorio, è citato "Sande Petre" tra i personaggi storici che l'onorarono; la cronaca di un pranzo tra amici (son. CCVII) include l'ironica allusione alla Perdonanza, quasi una licenza laica per organizzare la "rimpatriata" a base di pasta alla chitarra; infine, tra i meriti di Don Antonio Chiaverini (son. CCXII) sono ricordati i suoi studi su "Pietre da Murrone".
In altri componimenti il ricordo di Celestino è associato ad annotazioni d'arte o a descrizioni d'ambiente; di particolare rilievo appare il momento contemplativo, fissato nel son. CCV di Framminde, che conceme la basilica di Collemaggio; dopo avere spaziato con lo sguardo sul piazzale antistante e sulla bella facciata dell'edificio sacro, il poeta si sofferma sulla tomba del Papa al suo interno: qui "dorme Sam Bètre nghe la faccia more" e dalla sua arca promana un religioso fascino, che fa fremere I'anima del fedele che vi si accosta. Altrove, come già accennato, è il motivo paesistico a coniugarsi con la memoria del santo, come nel son. LXXIII di Terra lundane, che ha inizio, come in molti altri casi, con l'esclamazione che ripete il titolo: "La fonde de le Piane!... " e verte sulla sorgente che il santo anacoreta, assetato, miracolosamente fece sgorgare dalla viva roccia. Nello stesso componimento è ricordato anche l'eremo di Santo Spirito, avvolto nel misterioso fascino della Maiella, un eremo che il poeta scorge pure nel panorama montuoso che circonda "Salle morte" (son. LXXVIII), un paesino abbandonato alle falde del Morrone.
Ma vale la pena concludere questa rassegna citando un sonetto percorso dalla tipica vena satirica di Tontodonati; si tratta del CCIII di Framminde, che prende di mira il nuovo Palazzo della Regione all'Aquila e, per estensione, I'attività politico-amministrativa del Consiglio Regionale, l'uno tutto in cemento armato e vetro ("stu carcassciòne...") che contrasta fortemente con I'armonico paesaggio verde che lo circonda, I'altra improduttiva, inerte, tanto da poter assimilare a "nna mandre de pècure allu stazze" quell'assemblea di politici, solo occupati in furberie e polemiche inutili. Ora, a una situazione cosi deprimente non c’è da sperare alcun rimedio terreno, quindi: "ppòzzec-i-a penzà San Cilistine", che grazie ai suoi poteri soprannaturali sarà ben in grado di cancellare "stu sgòrbje" del Palazzo, insieme - è sottinteso. - con i suoi abitatori. L’attualizzazione della figura di San Pietro Celestino, sia pure in un contesto umoristicamente esasperato, può dare la misura del valore che ad essa attribuisce Tontodonati: un valore, certamente, esemplare per quanto concerne la dedizione alla fede, la carità, l'umiltà, la semplicità e rettitudine di vita del Santo del Morrone, ma anche storico per la vicenda dell'Abruzzo nel corso dei secoli; il vanto di aver offerto a San Pietro un luogo di preghiera e di meditazione e di aver assistito alla sua solenne ascesa al Papato è un elemento inobliabile del suo retaggio culturale. Di qui il significato che il poeta individua nella vicenda di Celestino V, legandola in tante occorrenze alla sua vena creativa: attraverso quella figura si corrobora l'impegno di testimonianza etica che egli ha sempre perseguito nel fare poesia.
1 Cfr. Canzoniere d’Abruzzo, p.240: "Fi-a-i-nìbbele"; p. 244.- "Fra-inibbele!... ",- p.254:
"Na cchisarelle..."; P.280: "Cannilore!...".
2 Cfr. ivi, p. 248: 'Vennardì Ssande... "; p. 290: “A Cannilore se fa sembre feste".
3 Cfr. ivi, p. 277: "Terre de monne..."; p. 236: "Sa' Mmalindine..."; p. 257: "Oh, feste de sett embre... "; p.2 76: "Gna me truveve... "
4 Cfr. ivi, p. 338: "Ferenze",- p. 340: "Recurde bbulugnise",- p. 344; "La piatà de Randani - ne"
5 Cfr. ivi, p. 315: "Lu ggiahànde itàleche",- p, 317: "Lu 'mberne dell'Orta" (uomo prei- stori - co); p. 319: "Poche destande da la cascatelle" (uomini del Neolitico); p. 345: "Lu guerrie- re de Capestrane".
6 Cfr. ivi, p. 307: "Oho ... San Lebberatore alla Majelle!" (col ricordo di Carlo Magno); p. 323: "San Clemende a Casaurie'; p. 414: "Bracce de Fortebracce da Mundòne".
7 Cfi-. ivi, p. 416: "Currèje I'anne de Nostre Signore”; p: 418: "Jurnata sande de la pas-
sijòne!... "; p., 421: "Lu diciassette lujje, a n’ora tarde".
8 Cfr. ivi, p. 427: "De prufunde .. curagge... "; p. 443: "Condre tutte le guerre...
9 Cfr. ivi, p. 325: "La cucine de za Gilde"; p. 360: "Mu che ss’à morte pure zi Bbunigne".
10 E’ I' "eroe" presente nella prima sezione di Storie paisane.
11 Cecore dà il titolo alla seconda parte delle Storie paisane.
12 E’ il prete protagonista dell'omonima sezione di Storie paisane.
13 Si vedano i sonetti da XLVI a L3CV di Terra lundane.
14 Cfr. Canzoniere d’Abruzzo, p. 163, son. CXMV.- " 'N zarrechenosce cchjù mò 'stu pahese"; p. 297: T'ome smussate fianghe e turnairille",- p. 349: "Chi parle merrecàne... chi frangèse...”.