Sergio Masciarelli
- Scrittore e giornalista abruzzese vive e lavora ad Alanno Scalo - Amico fraterno del poeta, di cui era anche cugino, ha collaborato con Tontodonati supportandolo nella revisione linguistica e nella stesura finale di tutti i suoi volumi di poesia dialettale, continuando anche dopo la morte del poeta a promuovere le sue poesia in modo particolare insieme al duo musicale "Ghezzi-Gialluca". Ha scritto la "Biografia "del poeta.
E' autore, insieme ad Enrico Leone, del libro Una vita per la Banda
Questo libro, per l'argomento inedito affrontato - la vita delle bande musicali d'Abruzzo nella prima metà del Novecento, attraverso i ricordi di un musicante - e per la ricca documentazione fotografica che lo illustra, si presenta come una singolare novità editoriale.
Tra storia e aneddotica, nelle sue pagine torna a rivivere un mondo ancora poco co-nosciuto, quello che ruotava intorno alla banda e alle feste paesane, il mondo vissuto dai bandisti, ossia quegli umili e celebri personaggi che, da veri protagonisti, animarono della loro passione e delle loro stesse stravaganze una forma di artigianato artistico in cui poté egregiamente esprimersi una nativa intelligenza musicale, l'anima musicale abruzzese, e che, per il popolo, fu alimento e tramite di cultura e di un'autentica civiltà musicale. la civiltà, appunto, della banda, che, per tante generazioni di fruitori, e non solo in Abruzzo, prima ancora dell'avvento della odierna 'civiltà' dei consumi di massa, e in specie di certa musica, è stata uno strumento di genuina cultura popolare, di una sana cultura volgare, se non, addirittura, l'unica scuola di musica che il popola abbia mai avuto nel nostro Paese, soprattutto nelle re-gioni emarginate del Sud.
Ragione questa non ultima, per cui, nell'attuale clima di ritorni e di revival, e di fronte ai guasti perpetrati da una perversa coltura massiva sinistramente penetrata, con le sue aberranti fraudolenze ritmiche, anche nel tessuto umano delle culture locali e del folklore, la riscoperta della banda, già in atto da tempo in altre regioni italiane, dopo un lungo periodo di crisi, oggi ripropone la sua piena validità sia come presenza emblematica e vera anima della Festa - anch'essa riemergente, e nelle stesse città - sia, ancor più, come crogiolo di un nuovo artigianato d'arte in cui poter forgiare le giovani leve di suonatori che poi andranno a rinsanguare le fila dei legni, degli ottoni e delle percussioni nelle bande militari e nelle orchestre sinfoniche.
Rinascerà, dunque, la banda anche in Abruzzo che in un non lontano passato seppe conquistarsi un posto di assoluto rilievo nel mondo bandistico italiano?
Gli Autori lo auspicano, anzi ne sono certi. Ed è proprio la loro fede nei valori della tradizione, e l'amore per la terra natia e il suo prezioso patrimonio di beni spirituali, che li ha animati e incoraggiati nell'appassionato e originale lavoro compiuto.
Errico Leone è nato a Spoltore (Pescara) nel 1894. Vive a Pescara.
Sergio Masciarelli è nato nel 1935 ad Alanno (Pescara), dove risiede. Ha scritto su diversi giornali e periodici, tra cui "Il Mezzogiorno d'Abruzzo", "Il Resto del Carlino", "Il Tempo", "La Gazzetta di Pescara" e "La Regione", ed ha curato una serie di trasmissioni radiofoniche. Dopo una prima importante esperienza maturata nel Coro Universitario Romano, ha continuato a coltivare la sua passione per la musica classica e per l'arte del canto. E' tra i fondatori de l"Abruzzo Pro Musica Antiqua", un centro di studi e di ricerche musicali che ha sede a Chieti.
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“Una vita per la banda” di Errico Leone e Sergio Masciarelli.
Nota critica di Ottaviano Giannangeli
Un piccolo grande avvenimento editoriale è da segnalare quest’anno nella storia della cultura abruzzese, piccolo per lo spazio che obiettivamente sembra occupare, grande per l’ambito dei valori coinvolti se si gratta un po’ più in profondo: è un libro sulla banda abruzzese, e più pre-cisamente «Una vita per la banda (ricordi di un musicante abruzzese)», Ed. Itinerari, Lanciano: ne sono coautori Errico Leone, che è il “musicante”, e Sergio Masciarelli, colui che dà la veste letteraria ed “interpreta” il ricordo. Entrambi sono dell’Abruzzo Ulteriore I, ossia della “riva sinistra” del Pescara, di quel territorio che era la provincia di Teramo, prima che s’incuneasse la provincia di Pescara tra quest’ultima e Chieti, nel 1927. Errico Leone, di Spoltore, che ha varcato da un bel po’ gli ottanta, è nato dunque “teramano”, mentre Sergio Masciarelli, che è molto più giovane, è nato “pescarese”, ma si riconosce anche lui in parte teramano per essere stato l’amoroso storico di Leone e della banda di Spoltore, anche se poi, cammin facendo, l’interesse della ricerca si è irradiato da questo centro ideale a tutte le bande abruzzesi.
Diciamo subito, per una debita precisazione verso coloro che intendessero trovare nel libro e-lenchi, date, numero degli organici, criteri delle riforme nell’evoluzione della banda, che la “storia” di cui abbiamo toccato non è precisamente questo. Sergio Masciarelli si augura anche di fare ciò, in un secondo volume. Per ora egli trascrive e disegna (metaforicamente e lette-ralmente, perché nel libro sono un centinaio tra disegni e tavole, nel testo e fuori testo) una storia fatta di tante piccole storie a cui quello che si può chiamare l’”artigianato artistico” della banda abruzzese fornisce la sorgente e il corso principale della narrazione, ma poi questo si diparte in tanti risvolti che riesumano e fanno rifiorire aneddoti, comportamenti, arguzie, e in una parola “civiltà” di questa terra d’Abruzzo, in cui - come ricordano narratore e trascrittore - «le popolazioni in festa facevano il tifo per la banda, come si fa oggi per il calcio, ed ogni no-vità inserita nei programmi dei concerti veniva seguita con grande interesse, suscitando spes-so accese discussioni e vivaci polemiche se i risultati non soddisfacevano gli appassionati in-tenditori e i rivali».
Chi scrive (e chi sta recensendo) ha grande rispetto per il mondo del calcio, ma non può non guardare, con una certa nostalgia per la cultura popolare, il tempo in cui in una platea all’aper-to si applaudiva ad una “cornetta” o un “bombardino”, e si andava quasi in delirio per questi strumenti, punte di diamante della banda, come oggi si va in delirio per il goal a cui approda tutta la manovra di una squadra di calcio.
Questo è sport, in cui ha notevole parte anche il cervello oltre ai muscoli; nella banda si trat-tava del sentimento educato dall’arte che in essa trovava l’unico «medium» per approdare al cuore e alla sensibilità della gente, che per la maggior parte era gente dei campi la quale aveva dimesso poche ore prima l’abito da lavoro e si era “rimutata” per la festa: festa dell’armonia, placamento, sia pure temporaneo, dei dolori e delle pene; concerto in cui non facevano solo bella mostra di sé i “divi”, le “prime donne”, le citate cornette e i bombardini, ma l’accordo si esaltava nelle marce in cui i “clarini” erano il filo di seta del tessuto sonoro (corrispondenti ai violini dell’orchestra), mentre i “tromboni d’accompagnamento” di dellaportiana memoria, la grancassa, le “tamburelle”, i piatti fissavano quei morbidi fili nella perentorietà del discorso. Era proprio forse la marcia a rappresentare l’estro armonico, a conferire la caratterizzazione al complesso, a far leccare le labbra ai guastatori, quasi a dare la carta d’identità della regione e addirittura del paese di provenienza della banda.
Il teramano andò orgoglioso - oltre che della banda di Spoltore, la “Centenaria”, uno dei più antichi complessi d’Abruzzo -, di Città Sant’Angelo, Loreto Aprutino, Alanno, Atri, Penne, Mosciano, Silvi (a Teramo capoluogo il concerto bandistico ebbe alterne vicende: basti ricor-dare le poesie dialettali di Brigiotti che alla “rifondazione” alludono spesso): ma il fiore al-l’occhiello della provincia di Teramo furono i celebri “Diavoli rossi” di Pianella, colti in due tavole nelle illustrazioni, la seconda raffigurante il complesso a Berlino nel 1911. Dire “essere di Pianella” significava dire, per antonomasia (come è ricordato in un aneddoto a p. 54), essere musicante sopraffino, avere orecchio. Perché emblema di una civiltà preindustriale pareva essere il fatto che i capoluoghi abruzzesi (tranne la grandissima Chieti) la cedevano ai paesetti in fatto di arte: legata, dunque, alla vocazione e non al benessere.
Ottaviano GIannangeli
(La voce Pretuziana, anno X, n. 3, 1981, pp. 29-31)