Renato Minore
Le Scafe
ABRUZZO: I POETI CUSTODITI CON GELOSIA.
Come Guido Gíuliante (1912 - 1977) o Alessandro Dommarco (nato ad Ortona nel 1923) o lo scannese Marco Notarmuzi
(1923) che, in forme diverse, si muovono nel solco tradizionale tracciato dai maestri del vernacolo abruzzese. E il catalogo risulta parziale senza le ultime voci ad esempio quella di Cosimo Savastano (Castel di Sangro 1939) che ha saputo affidare ad una lingua viva e mobilissima la sua sensibilità di poeta colto, in linea con le esperíenze più valide della lirica novecentesca. 0 quella di Giuseppe Tontodonati (Scafa 1917) autentica rivelazione di questi ultimi anni il quale,
prima con «Storie paesane» e poi con «Dommusè», tesse le trame di un racconto continuo e favoloso, in cui il vero si mescola al remoto e al fantastico e tutto diviene «scrittura parlata».
Da Tontodonati viene recuperata la possibilità di affabulazione collettiva. Ma Tontodonati è in fondo n'eccezione:
................. ................. .......... .
Storie Paesane
CONTESTANO LA TV I CARBONARI DI SCAFA - di RENATO MINORE
Tutto è dovuto ai sonetti di Giuseppe Tontodonati che ha fatto persino dimenticare ai suoi concittadini scafesi «Canzonissima».
È un fatto sorprendente, non succedeva da tempo. La gente di Scafa improvvisamente ha riscoperto il piacere della conversazione serale, abitudine da anni dissacrata, dimenticando il Fernandel televisivo o Willy De Luca che dosa l’alchimia governativa. Tutti i piaceri e i dispiaceri del piccolo schermo sono stati contestati in blocco in una forma perentoria, il rifiuto; fino alle ore piccole in piccoli crocchi di dieci, dodici persone, si parla magari del cieco di Salle o della caldarrostaia Ngiuline o di Cecore, il macellaio. Personaggi tipici, quasi da leggenda popolare.
Chi li ha tolti dai ricordi sbiaditi di una realtà anonima è un poeta finora sconosciuto, Giuseppe Tontodonati nato a Scafa e residente a Bologna.
Ha scritto dei sonetti ispirati alla vita e agli abitanti di Scafa e li ha fatti pubblicare. Il successo è stato immediato, senza precedenti. A Scafa da un mese non si parla d’altro. Sono state organizzate delle serate di lettura pubblica e la gente è accorsa in gran numero, disertando perfino Canzonissima. E cominciato anche il rito delle riunioni non ufficiali: cinque o sei amici decidono di vedersi o a casa d’uno o al tavolo del caffè, a turno ciascuno legge un sonetto, poi si parla con libertà fino a tardi. Le opinioni s’intrecciano, ogni tanto vola anche una parola grossa, poi con un bicchiere di vino (nu vucale, dice Tontodonati) la pace è fatta.
Sembra che si sia tornati indietro di almeno dieci anni quando il fascino del teleschermo ancora non rubava ore simpatiche alla conversazione.
Tontodonati ha colto nel segno. Questo poeta schivo che finora è voluto restare in ombra, ha saputo rievocare con i suoi sonetti, antichi personaggi del borgo, e la distesa atmosfera delle chiacchiere serali, delle allegre conbriccole, dei commenti salaci o saggi ai fatti del giorno, le interpretazioni improvvisate (ma permeate di buon senso) della storia, dei suoi conflitti sociali, delle ingiustizie di cui si fa garante. Qualche volta la sua voce si fa grossa, in invettive che hanno sapore dantesco, altre volte si intimizza in ricordi personali come nella struggente rievocazione del lontano sepolcro della madre nel cimitero di montagna.
Ma da tutto viene fuori l’immagine di un paese, cioè di uno stile di vita, di una cultura su cui si esercitano lirica, elegia, memoria, arguzia e sapienza del proverbio popolare, a volte senso tragico e desolazione, ma soprattutto umore, sapore grottesco — così acutamente osserva Antonio Rinaldi nella prefazione.
Anche i personaggi sbozzati dall’agile lingua di Tontodonati non sono soltanto macchiette dall’icastico rilievo, ma si inseriscono nel quadro d’assieme, testimoni di un sentimento, di uno stato d’animo, di un’attesa: Necole, lu cecate nate a Salle, è il tempo che piomba rovinoso di presagi e sempre uguale, come una presenza sottesa; Ngiuline de la Cioppe, la caldarrostaia è il buon senso popolano fissato in un gesto, in un fare proverbiale; Cecore, il macellaio che beve il sangue è un emblematico Barabba, con un suo preciso rilievo umano e sociale.
Ma Necole, Ngiuline e Cecore, sono anche persone realmente esistite, fino a qualche anno fa: la gente di Scafa, stimolata da Tontodonati, si diverte a rievocarle, a narrare gli aneddoti più curiosi, ad interrogare i più vecchi per avere attendibili conferme.