Pietro Civitareale
Per Giuseppe Tontodonati
Il mio primo impatto con la poesia di Giuseppe Tontodonati lo devo ad Antonio Rinaldi, poeta e critico d’un crociano rigore morale e d’una eliotiana asciuttezza di dettato, immaturamente scomparso ed immeritatamente dimenticato.
Fu Rinaldi, infatti, (col quale, sullo scorcio degli anni sessanta, mi vedevo assieme a Luzi, Macrì ed altri in un caffè fiorentino) a passarmi copia di quelle Storie paesane (1968) che aveva egregiamente tenuto a battesimo con un’azzeccata prefazione e con le quali, appunto, Tontodonati si affacciava allora sulla scena della poesia dialettale abruzzese. E confesso che mi accostai a quel libro mosso più da una curiosità divertita (trovavo stupefacente, ad esempio, il modo con cui il dialetto veniva trascritto, secondo moduli meramente fonetici e fonosintattici) che da un autentico interesse per il suo contenuto; curiosità tanto più divertita e scettica, in quanto l’idea di una letteratura dialettale sembrava avviata verso un definitivo tramonto all’orizzonte delle mie ambizioni letterarie, nonostante le prove, come dire, in pectore” di Come nu suonne (1984). L’inurbamento faceva di questi scherzi a chi, come me, venendo dal contado, non era sufficientemente vaccinato contro attacchi di cosmopolitismo ad oltranza.
In tal senso si rivela di una sorprendente verità profetica la parola d’ordine: «Vogliamo restare in provincia» con la quale la rivista “Dimensioni” volle tornare a vivere ad un certo momento della sua storia, come un fermo presidio delle virtù passate, presenti e future della cultura municipale.
D’altra parte, quelli erano anni in cui si era potuto o si poteva scrivere, con perfetta tranquillità di coscienza, che «il dialetto non è nella letteratura di oggi chiamato ad esprimere alcuna situazione che sia veramente peculiare dell’uomo della provincia, estraneo dopo tutto (...) alla sostanza delle poetiche moderne» (Luzi); che «il revival dialettale non ha avuto nella poesia degli ultimi anni che una importanza di doveroso recupero culturale, mentre sul piano creativo si è risolto in manifestazioni arcadiche per non dire reazionarie» (Raboni); che «la poesia dialettale del dopoguerra ha proseguito, per lo più, il vecchio discorso della prima metà del novecento (...), risolvendosi quasi sempre in una trascrizione minore della poesia in lingua» (Bàrberi Squarotti).
Anni, insomma, di sprezzante emarginazione delle parlate municipali, durante i quali il nostro paese veniva barbaricamente invaso dagli idioletti pseudoecumenici delle comunicazioni di massa (dal cinema alla televisione, alla carta stampata), sparendo in quel grigiore sociolinguistico di cui solo in questi ultimi anni veniamo accorgendoci.
Tutto ciò, ad ogni modo, non mi impedì di seguire l’evolversi della poetica di Tontodonati, dalle citate Storie paesane (1968) a Dommusé (1974), da Le Scafe (1976) a Canzoni abruzzesi (1979), dalle seconde Storie paesane (1979) a Terra lundane (1980), a Sa’ Mmalindine (1983); fino a Canzoniere d’Abruzzo (1986) che si offre come un opus unicum, non soltanto perché raccoglie tutta la sua produzione poetica, ma anche (e direi soprattutto) perché la materia vi risulta organizzata con intenti ed esiti sistematici, a specchio di un itinerario biografico e fattuale d’una particolare specificità etico-sentimentale.
L’opera, infatti, è ripartita in due trilogie: Storie paesane e Terra lundane, secondo un criterio psicologico-tematico il cui momento di discrimine è costituito dall’abbandono, da parte del poeta, della terra d’origine (Scafa - San Valentino in provincia di Pescara) per trasferirsi a Bologna, momento che ha verosimilmente condizionato anche tutte le sue scelte esistenziali e culturali successive.
Sin da una prima lettura, quest’opera si rivela di una stupefacente ricchezza di temi, di toni, di umori, di suggestioni, nei termini di un racconto poetico che si dipana con una fermezza estrema di dizione, tra modulo lirico e modulo epico-narrativo. La si potrebbe definire un’epoca delle piccole patrie”, in cui però l’evocazione dei fatti si affida ad una memorabilità che va al di là d’ogni angustia municipale per farsi trascrizione senz’altro della vita e della storia nella loro universale dimensione e significazione; si vuoi che l’affabulazione del narrato, animata dalla memoria individuale, tende sistematicamente verso il mito, pur conservando una nota personale di saggezza e di partecipazione aperta alla realtà più concreta.
Una particolare attenzione merita poi il linguaggio, invero molto personale; il quale, per effetto della diaspora subita dal poeta, ha potuto conservarsi nella sua memoria con una integrità di risonanze ed una originalità di scrittura che ne fanno uno strumento espressivo dalle intense coloriture e dalle inflessioni singolarissime, in ordine ad un espressionismo linguistico dai forti e corposi contorni. Per tutto ciò la poesia di Tontodonati si impone all’attenzione del lettore per una implicita forza catalettica, per una coerenza strutturale e sentimentale assolute, ma senza calcoli aprioristici, rispondendo spontaneamente ad una esigenza di racconto quasi sorgiva, caratteristica propria a tutte le esperienze poetiche autentiche.
In questo quadro va collocata anche quella propensione iperrealistica sottolineata da qualche critico, quella sua espressività, fortemente rilevata, che ha dato luogo ad alcune riserve di carattere stilistico. Il suo esempio di poeta così accanitamente raciné, incurante (se non addirittura vago) di certe cadenze prosastiche, di certo affiorare della materia a livello di pronuncia, non ha riscontri, diciamolo francamente, nella storia della poesia dialettale abruzzese, se si esclude forse il caso del vastese Luigi Anelli, mentre certifica, senza ombra di dubbio, la parte migliore della sua opera, ponendosi addirittura come un possibile riferimento per la costituzione di una nuova coscienza espressiva.
- Pietro Civitareale - – tratto dalla rivista “La Regione” Novembre 1989
Questo articolo è stata pubblicata nel volume :
" La dialettalità negata "
Annotazioni critiche di Pietro Civitareale sulla poesia dialettale contemporanea
[Ottobre 2009] Roma, Edizioni Cofine, 2009, pp. 128