Ottaviano Giannangeli
Poesia E Volonta’ Di Poesia In Tontodonati (1989)
Aveva superato di poco i cinquanta anni Giuseppe Tontodonati quando si decise a stampare il suo primo libro dialettale: Storie paesane (Bologna, 1968).
Sapeva di caldo rimpianto, quel libro, per la terra abruzzese che Peppino si era deciso ad abbandonare dopo la seconda guerra mondiale. Fui dei primissimi a recensirlo ( “ Dimensioni “, n. 1-2, 1969 ) e a dire che l’autore faceva il suo ingresso nella poesia dialettale abruzzese in una maniera sconcertante.
Mi pareva di leggere questo sconcerto in una tal quale “rapinosita’ dei suoi sonetti che assomigliavano a una furibonda colata di lava che investiva e rendeva incandescenti gli oggetti su cui scorreva, sicché le persone, gli ambienti apparivano subito trasfigurati e lampeggiavano di una luce quasi irreale, anche se il rievocatore intendeva attingere a dati determinati, reali, a storie vere filtrate dal pittoresco eloquio della gente di paese, che assurgeva a protagonista della narrazione: storie dilatantisi e proiettantisi sempre più indietro, come in un procedimento di genealogie bibliche; come in certi cantari o cronache medievali, in cui si comincia proprio ab ovo.
E l’uovo è la metafora che si coglie in Tontodonati:
Nu pìccule pahese è ccome n ove...
E alla Creazione si rifà il personaggio che parla (diamo la traduzione di un inizio di sonetto, per essere meglio compresi):
(Come Dio Padre illuminò le stelle per fare i troni per i cherubini, mise. solenne, a capo del Lavino grande grande un altare: la Maiella!...»
La prima impressione che mi fece la poesia di Tontodonati fu, dunque, quella di un disegno a forti tinte di una regione da cui spariva l’idillismo fiacco, snervato di molti verseggiatori nostrani, anche se egli utilizzava dei topoi in altri poeti ricorrenti, che però — nello scorrere di quella lava — non erano più topoi, perché Tontodonati muoveva alla riconquista della Terra come un visionario o un mistico.
La retorica, nella accezione più bassa e più disimpegnata del termine, era bandita. Sembrava trattarsi, nella sua pagina, di una operazione etica prima ancora che poetica, o poetica in quanto etica e, tout court, religiosa.
Ma quella lava trascinava lapilli e materiali impropri nel linguaggio: si trattava di un dialetto che sapeva di... esperanto: ed io annotavo certi termini “mostruosi” all’amico (in quella recensione e poi a voce, in fitti discorsi), come i verbi cadde, essubbendrò (= e subentrò), che sono patenti italianìsmi (il secondo con l’agglutinazione tra la congiunzione e il verbo) in un contesto dialettale:
Gna cadde lu reame de Bburbone
essubbendrò lu regne Savuiarde...
Le mie osservazioni, fatte cordialmente e col riso sulle labbra all’amico (non con la presunzione e la sicumera del filologo), hanno menato qualche frutto; e l’amico, ristampando i versi or ora citati, correggeva in questo modo:
Gna s’ne scappi Frangische de Bburbone e gguvernò la strìppia Savujarde...
Ma è facile capire come la limatura non riesca, in questo e in altri casi consimili, a neutralizzare una eterogeneità di fondo che continuerà a invadere (da Storie paesane ai libri che verranno) la pagina di Tontodonati: l a struttura stessa della sua invenzione e la strutturazione linguistica dialettale.
Il congegno ispirativo dello scrittore non può tener dietro ai filologismi.
Mi è parso che l’amico avesse fretta di cavar fuori da sé tutto l’universo dialettale (e starei per dire “volgare”, nel senso di popolare) che aveva covato fin da fanciullo nel suo seno, recependo il favoloso parlare degli incolti. L’uomo di cultura, che è in fondo il nostro, con molta esperienza imbavagliata nel campo della letteratura e delle atti figurative, non riesce mai a sciogliersi completamente nei suoi personaggi che dovrebbero mediare per lui la visione del mondo: si disegnano, allora, due storie parallele: quella dell’intellettuale e quella del “paesano”, che molto spesso danno forti stridenze.
E il linguaggio risente di queste esperienze asson-zrnate e raramente fuse in maniera perfetta. Vittoriano Esposito, nel presentare, del nostro amico, il Canzoniere d’Abruzzo dell’ ‘86, la sua opera completa, tocca intelligentemente questa “divaricazione” quando afferma che «frequenti sono, poi, certe pause descrittive, in ordine al paesaggio, agli usi e ai costumi- e certe pause meditative, vero e proprio ‘cantuccio’ che il poeta si riserva, alla maniera manzoniana, per abbandonarsi più liberamente alla confessione dei suoi sentimenti».
Il fatto è che, in Tontodonati, il paesano entra volentieri nel letterato e nell’intellettuale, nell’uomo impegnato socialmente e civilmente che avverte i grossi problemi del mondo presente e scudiscia senza inibizioni il malcostume contemporaneo e la degradazione della politica; e, viceversa, il letterato e intellettuale presta i suoi temi al paesano, talvolta arbitrariamente- Ad esempio, nel sonetto LVIII di Storie paesane, si parla dell’inondazione di Firenze (chi parla è il paesano Ndunducce). La prima quartina crea subito un quadro apocalittico, che do in versione letteralissima:
Un mare limaccioso di detriti
ricopre le tombe a Santa Croce...
un Cristo sfigurato in modo atroce
in mezzo al fango sanguina ferito...
Lasciamo stare il linguaggio che, nel dialetto, al primo verso si presenta italianizzante; ma, nell’ultima terzina del sonetto, il paesano, raccomandando a Dio di salvare Firenze, esce a dire:
falle pe llu Fijje
che ppruvì, core, dol’e smarremènde
gna scrivi ch’la tremenda prufizzìjje.
(«fallo per il Figlio / che provò, cuor mio, dolore e smarrimento quando scrisse quella tremenda profezia»).
Quando avevamo letto quella parola “Figlio”, con la maiuscola, noi saremmo andati, sull’onda della preghiera popolare, col pensiero a Cristo: invece si trattava di Dante Alighieri, che avrebbe dunque dovuto essere — per un uomo del popolo, in cui si calava evidentemente lo scrittore —il patrocinatore presso Dio della causa di Firenze. -
Allora, quale giudizio potremmo dare, globalmente, della poesia di Giuseppe Tontodonati ? Si tratta di un titanico tentativo di tradurre in parola dialettale un mondo regionale che gli urgeva e gli urgeva dentro. Molto spesso, per grazia di quel Dio che di tanto in tanto ascoltiamo da lui implorato, questo mondo riesce a disciplinarsi, a mantenersi dentro gli argini di una espressività ricca di colori, sapori, alte suggestioni, in cui si respira un’aria di autentico terrore; altre volte la poesia va letta come doloroso sforzo all’espressione che si arresta allo stadio di un'umanissima testimonianza.
Una poesia che vive anche dell’èmpito straordinario con cui l’allievo aspira a raggiungerla.
Proprio come in quest’ultimo dei tre sonetti (inediti) di Lu libbre, che Vittoriano Esposito accoglie nel suo Panorama della poesia dialettale abruzzese (pp. 199-201) e che Giuseppe Tontodonati dedicava al suo Canzoniere d’Abruzzo, che si fregia in sovraccoperta dell’effigie del Guerriero di Càpestrano, visto come soldato perennemente in marcia (anche questo sonetto voglio rendere, non indecorosamente spero, in versi italiani):
Figlia di Giove, eterna poesia!
Tu, come miele, dolce fai la terra
all’uomo angustiato dalle guerre
e dai mostri rombanti, dai pericoli,
dalle tempeste che per via lo colgono
mentre per le boscaglie della serra
a mo’ di mercenario senza terra
cerca la luce e la pietà di Dio.
O sole, o vita, o acqua di sorgente!...
alle mammelle di tal seme gonfie
immortale nutrì Dante un concento.
E, dopo aver varcato con il remo
il fiume di Caronte, le dolenti
spiagge guardò, forgiando il suo Poema!...
I sonetti furono composti poco più di due anni prima della morte dell’autore ed hanno una valenza, appunto, testamentaria.
Raiano (AQ), Settembre 1989 - Ottaviano Giannangeli
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IL SODALIZIO POETICO MUSICALE TONTODONATI - DI PASQUALE ( 2004 )