Giuseppe Rosato
DOMMUSE'
Prefazione: se la singolarissima raccolta dei sonetti delle Storie paesane, pubblicata nel '68, aspettava - e proprio per la sua "eccezionalità", una conferma; o se, per dirla più propriamente, lasciava aperta la curiosità circa gli esiti eventuali che potessero far seguito a quella prima clamorosa uscita del "non giovane" e homo letterariamente novus Giuseppe Tontodonati, ecco che Dommusè giunge puntuale, cioè dentro uno spazio di tempo tale da sottointendere un impegno serio, a darci tutte le conferme che ci si potesse auspicare. Dommusè, appunto, e non Don Musè, come postulerebbe il rispetto d'una grafia abruzzese corrente e più prossima al Don Mosè della lingua e della scrittura nazionali. Ed è indicativo che già dal titolo Tontodonati dichiari la sua persistente fedeltà ad una scelta che a nostro parere sarebbe risultata arbitraria proprio se fosse rimasta limitata a quella prima prova a se l'autore non l'avesse invece ratificata in questa seconda; e non diremo a dispetto delle perplessità allora avanzate da critici e cultori di cose dialettali, ma semplicemente perché si rendesse chiaro in via definitiva che è questo il suo "modo" di scrivere il dialetto; scrittura dunque non etimologica, ma che va al di là, assai al di là, anche delle consuetudini di quella fonetica, e che non sapremo come definire altrimenti se non "scrittura parlata". Dov'è poi la motivazione della scelta, intrinseca alla natura dell'opera del Tontodonati e del suo stesso essere poeta: ché egli intende raccontare per iscritto storie fantastiche o quasi reali o in tutto vere ma remote, cadute dalla memoria comune e del resto mai tanto importanti da essere state gratificate dell'onore delle cronache ufficiali. La "storia" di Don Mosè è ancora una delle "storie paesane", che pur se più ampia e più autonoma può nascere e svolgersi soltanto perché attinge dalla humus medesima di esse, sicché appartiene a sua volta ad un tempo e ad un ambiente che oggi fanno il "mito" di una terra e di una sua gente. E dire mito significa dire già poesia potenziale, che diventa poi in Tontodonati poesia in atto, e irrefrenabile, turgida di tutti gli attributi che valgano ad acquisirla ad un tipo di creazione gestuale, che non può (né proprio perché tale, deve) star dietro a perfezione di passaggi sintattici o a esattezza di metro. E poesia che deflagra, schiodando d'un colpo le abbottonate maniere di tanta, forse tutta la recente poesia dialettale abruzzese. Basterebbe ciò a darle ragione.
SA'MMALINDINE
RAI - Redazione di Pescara NOVITÀ LIBRARIE . Ancora una raccolta di versi dialettali di Giuseppe Tontodonati: e siamo con questo, se il conto non ci ha tratto in inganno, all'ottavo volume. Una vena quant'altro mai fertile, dunque, tenendo anche conto che l'autore - da anni trapiantato a Bologna dalla natia Scafa - è giunto piuttosto tardi alla poesia, o perlomeno alla rivelazione di essa. In pochi anni allora, ecco questa enorme massa poetica, che affida al dialetto la sua forza e alla memoria il ruolo di ispiratrice. Ma la poesia vernacola di Tontodonati ha caratteri assolutamente propri, quindi tali da sottrarsi a qualsiasi tentativo di assimilazione con altri esempi - per quanto illustri - che l'Abruzzo ha saputo fornite nel tempo in questo genere letterario. Tontodonati adotta intanto una parlata veramente sua, che cerca non altro che la resa espressiva immediata, tagliente, provocatoria addirittura: nel senso che trascura di proposito ogni ortodossia linguistica e trascritti-va; sì che la si direbbe poesia destinata ad essere ascoltata, nella dizione vibrante dell'autore che sappia conferire ai testi il suono irripetibile del grido spontaneo, dell'improvvisata apostrofe. Questo libro, che esce a Pescara per l'editrice "LA REGIONE" con prefazione di Umberto Russo, sintitola Sa' Mmalindine, (San Valentino), ed è appunto dedicato al paese di San Valentino. Comprende una cinquantina di sonetti, misura metrica assai con-geniale all'autore, che trova nella brevità dei componimenti il taglio più giusto, rapsodico, per la sua vena essenzialmente rievocati-va. Il racconto di un paese e di una gente che il ricordo ha conservato indenni da ogni trasformazione, se è vero che talvolta si colora di rimpianto, resta altresì, nel complesso, la sostanza di una misura poetica ferma ed essenziale, e soprattutto unica.
TERRA LUNDANE
RAI - Redazione di Pescara 3-3-1981. Dodici anni fa, quando comparve in libreria il volume "Storie paesane", sonetti abruzzesi di Giuseppe Tontodonati, si parlò di "caso" letterario: l'autore, non più giovane, ma fino a quel momento pressoché sconosciuto, aveva fornito prove di singolare maturità e personalità tanto da far dire di sé che si presentava con tutte le carte in regola per contribuire decisamente a ridare fiato a una poesia dialettale abruzzese impaniata sempre più in una situazione di incertezza, addirittura di crisi. Ma restava il dubbio che quei volume potesse rimanere un "unicum" quasi fortuito, e privo di seguito. 1 fatti smentirono quella ipotesi: sci anni dopo, nel '74, il Tontodonati dava alle stampe un secondo volume, "Dommusè", che assumeva il ruolo non solo di conferma ma di ulteriore dimostrazione di novità, quando ad argomento - una straordinaria figura, quel Don Mosé, alle soglie del mito - ed anche quanto a stile, via via più rassodato pur senza rinunciare alla carica estrosa che è la tipica forza di questo autore, Terza raccolta di Giuseppe Tontodonati ecco adesso fresco di stampa il volume "Terra lundane", edito a Pescara da "La Regione", con prefazione di Italo Ghignone. Sono, ancora, sonetti: un metro nel quale lo scrittore di Scafa ha trovato e continua a trovare la sua naturale misura espressiva; ma l'orizzonte delle implicazioni della memoria, nonché degli affetti, si estende e l'affresco che ne affiora è ampio, spaziando lungo motivi che costituiscono una vera e propria storia di un'area regionale che l'autore, da tempo trasmigrato a Bologna, rivisita con felice immediatezza di sentimento e di memoria. La vena è fluida, scrivere sonetti sembra - lo dicevamo -ùn impegno naturalissimo per Giuseppe Tontodonati: in questo libro ne mette in fila circa centocinquanta, e c'è da credere che il discorso, questo amoroso colloquio con la sua terra, non si fermi qui.