Vittoriano Esposito
Giuseppe Tontodonati, anche se da molti anni si è trapiantato a Bologna, dove dirige il Centro Internazionale delle Arti, resta un nome largamente noto e caro della poesia dialettale abruzzese.
Nato a Scafa San Valentino in Abruzzo Citeriore, fin dalla giovinezza si è sentito particolarmente versato per la poesia e le arti figurative. Ha pubblicato varie raccolte di versi, che citiamo nell’ordine di successione: «Storie paesane», sonetti con prefazione di Antonio Rinaldi, Bologna 1968; «Dommusé», ballata con prefazione di Giuseppe Rosato, Lanciano 1974; «Le Scafe», edizione numerata della Editrice «Stile», Bologna 1976; «Canzoni abruzzesi», con musiche del M.o. G. Di Pasquale, Chieti 1979; «Storie paesane», seconda edizione in due volumi, con prefazione di Italo Ghignone, Pescara 1979; «Terra lundane», sonetti con prefazione di I. Ghignone, ivi 1979.
Una produzione considerevole per mole e per dignità di risultati, con al centro il paesino d’origine, intorno a cui la fantasia del poeta fa ruotare l’intero universo. Ha opportunamente osservato Italo Ghignone: «Ma la ricchezza del mondo poetico di Tontodonati determina una grande varietà di rapporti fra i molteplici temi che lo compongono. Così il paesaggio, quando non si presenta come valore estetico autonomo, come pura contemplazione dell’antichissimo volto della terra del poeta, fa da imponente cornice alla vicenda umana, al lavoro, al dolore, alla storia; e l’umano si fonde col paesaggio nelle dimore dell’uomo, nei paesi arroccati sui dirupi, nei castelli, negli antichi conventi, nelle cattedrali romaniche ornate da meravigliosi artigiani, nelle leggende, negli eventi storici legati a quei luoghi. Anche l’ambiente naturale si carica di memorie, di risonanze remote, quelle risonanze in cui affonda le sue radici la vocazione autoctona di grande parte della poesia e dell’arte abruzzesi».
Ne deriva, un quadro ampiamente rappresentativo della civiltà della nostra provincia, ritratta nelle vecchie costumanze della nostra gente, con le sue ansie e le sue pene, con le sue fatiche e con i suoi svaghi; e, allo sfondo, gli eterni problemi del nascere e del morire, che non conoscono privilegi di latitudini, ma che qui hanno tuttora il fascino dei misteri sacri, su cui aleggia la volontà dei Santi, che devono pur sempre piegarsi a quella dei fati.
Sui piano stilistico-espressivo, Tontodonati resta sostanzialmente fedele al parlato della gente comune: discendente da antico ceppo abruzzese, egli è capace di scrivere così come pensa in dialetto, sia in ordine al prelievo lessicale e alle inflessioni fonetiche, sia in ordine alle strutture morfologiche e ai nessi sintattici. Può accadere tuttavia che, passando a trattare tematiche non tipicamente abruzzesi, si avverta un certo sforzo d’invenzione che in apparenza sa d’arbitrario, ma che in effetti rischia ben poco in fatto di spontaneità, mentre si rivolge certamente in un apprezzabile arricchimento del linguaggio. Si tratta, in fondo, di operazioni abbastanza frequenti in tutte le lingue, indipendentemente dagli sperimentali. smi di maniera.
Recentemente Tontodonati, con «Rapsodia» (Pescara, 1982), si è voluto cimentare anche nella poesia in italiano, cogliendoci un po’ di sorpresa. Ad esser sinceri, alla prima lettura ne siamo rimasti piuttosto delusi: troppa retorica, pensavamo, con tutti quegli esclamativi e interrogativi e sospensivi; un’aura classicheggiante di fine Ottocento, ma più vicina al Carducci che a Pascoli e al D’Annunzio; una polimetria di buona fattura, ma in netto contrasto con la scelta di sempre, il sonetto, trattato con bella padronanza. Tuttavia poi, rileggendo con più attenzione, abbiamo trovato delle pagine dal «pathos» avvincente, come «Il grande scirocco» e «Le strade», dense di suggestive immagini sulle tormentate vicissitudini della coscienza contemporanea.
Crediamo, comunque, di non far torto a Giuseppe Tontodonati se confessiamo che, delle sue corde, per noi quella dialettale resta più poeticamente vibrante.
Giuseppe Tontodonati: Da «Storie Paesane» A «Terra Lundane» Di Vittoriano Esposito.
Itinerario Poetico Di Giuseppe Tontodonati
1) DALLE “STORIE PAESANE” AL “CANZONIERE D’ABRUZZO”
Riteniamo non solo molto utile, ma anche necessario, che un poeta, raggiunto e superato felicemente l’ambito traguardo della propria maturità espressiva, riordini e raccolga da sé in un corpus unico tutte le sue "sudate carte”, non tanto per affidarle al giudizio dei posteri senza correre i rischi di intrusioni e manipolazioni arbitrarie, quanto per riesaminare il cammino percorso, per rifare - in un certo senso - i conti con se stesso. Diciamo volutamente tutte, perché convinti che ogni pagina, anche quella meno bella, rechi pur sempre con sé un frammentino dell’anima che l’ha generata. E poi nessuno può assicurare, in assoluto, l’obbiettività di una selezione condotta sub specie pulchri. Le crestomazie, a quel che ci risulta, non sono meno discutibili dei repertori panoramici.
Siamo stati ben lieti, perciò, di vedere riunita in un sol volume l’intera produzione dialettale di Giuseppe Tontodonati e, ancor più, di averla accolta nella collana dell’Istituto dialettologico di Abruzzo e Molise, destinata a consacrare - per così dire - solo voci altamente significative ed esperienze abbondantemente collaudate, come provano le opere finora pubblicate, dovute a Luigi Dommarco, Walter Cianciuisi, Pasquale Cianciuisi, Giuseppe Gualtieri, Natale Cavatassi.
Giuseppe Tontodonati é stato sulla breccia letteraria per oltre un trentennio circa. Sempre ben apprezzate, dal pubblico e dalla critica, le sue opere, che vogliamo ricordare in ordine di successione: Storie paesane (prefazione di Antonio Rinaldi, Bologna 1968), Dommusè (Prefazione di Giuseppe Rosato, Lanciano 1974), Le Scafe (Bologna 1976), Canzoni abruzzesi (con musiche del M.o. Di Pasquale, Chieti 1979), Storie paesane (edizione in due volumi, con prefazione di Italo Ghignone, Pescara 1979), Terra Iundane (prefazione di I. Ghignone, Pescara 1980), Sa’ Mmalindine (prefazione di Umberto Russo, Pescara 1983).
Una produzione davvero considerevole per consistenza di mole e di risultati. Ora, dopo averla sottoposta ad un attento esame stilistico, l’autore ha creduto bene di raggrupparla in due "trilogie”, Storie paesane e Terra Iundane, attenendosi ad un criterio psicologico-contenutistico più che cronologico, ruotante sostanzialmente intorno ad un tatto fondamentale della sua biografia e, cioé, il trasferimento da una terra tutta cuore come quella d’origine, Scala San Valentino in Abruzzo Citerione, in una città evoluta e “dotta» come Bologna. Ne risulta un «canzoniere», nell’accezione più nobile risalente al Petrarca, densissimo e così organico nelle sue motivazioni più profonde, che se ne potrebbe fare addirittura una lettura poematica in chiave realistico-giocosa e lirico-elegiaca.
La prima trilogia comprende delle «storie» legate a tre personaggi emblematici del mondo paesano: Ndunducce, Cecore e Dommusé. Pur desunti da/la realtà, essi vengono reinventati dalla fantasia e s’innalzano a figure simboliche di una società arretrate, sì, ma non prima di valori che, per essere propriamente autoctoni, hanno contrassegnato il destino di tutta una gente. Anche se «ndartaje», Ndunducce si picca d’essere un gran favellatore con le sue storie di sbirri e di briganti, che ci riconducono al clima infuocato dei primi anni dell ‘Italia postunitaria, quando scappi Frangische de Bburbone e gguvernò la strìppia Savujarde.
Sono storie, dunque, di aspri conflitti, di violenze, di sangue, tramandate oralmente di padre in figlio e perciò vivacizzate da una immaginazione di gusto tutto popolare:
Ndunducce, a/la candine, é rresapute, parle sembre di sbirr’e dde bbrehande...
e cchiù ndartaje e accéllere lu carte doppe na passatélle e ma bbevute.
Nel racconto, ovviamente, non solo vengono richiamati, con le loro gesta, nomi di spicco de/brigantaggio locale (Colamarine, Gola fe/le caramanechése, Colajanne aquelane, ecc.), ma viene coin volta tutta una comunità, in un modo o nell’altro, talché quel/o che voleva essere il ritratto dì Ndunducce finisce per essere un ritratto di un paese.
Cecore, «macellare scarciapelle», è un'altra figura tipica del piccolo centro abitato, oggetto di risa e di schemi, con addosso una malasorte che richiama quella di certi «vinti» verghiani (si pensi, ad esempio, a Rosso Malpelo). Egli appare come un sanguinario per il mestiere che esercita, sempre rozzo nel vestire e primitivo nel contegno, ma anche onesto e per nulla corrotto dal cosiddetto progresso:
Nu tipe mucculose, mbri]acone, che ttra lu sanghe s ‘arevutrtjeve
de gnille, de capritte e dde mendone.
Abballe pe le Sca fe, quanda ssce ve, s ‘aresperé ve, gna dicé Me/ore, la puzza rangeticce de lu serve.
Turbato da complessi e difetti (naso aquilino, viso «terat’e rrusce~, «ùcchie frecagnùle da rebbelle», «camerà fatUa zzumbitte»), Cecore se ne vive isolato da tutti e quando sente avvicinarsi la morte, confessa alla moglie di voler lasciare «sta terra tradetore!.. filice da calà dentr’a nna fosse!”. Naturalmente, anche attorno a Cecore con la sua storia di «pò vere bbarabbe», si muove e vive tutto un piccolo ambiente, col suo popolo tenace «ch ‘a pattte, da sembre, fame e ssete».
Il terzo personaggio, Dommusé (Don Mosé), è protagonista di una storia tra gicomica, di quelle che la realtà sa presentare più e meglio d’ogni umana fantasia. Nominato parroco della Rocca, un paesino di montagna, Dummusè vi giunge, preceduto dalla trista fama di donnaiolo, come un Rodomonte a cavallo d’un mulo, ma viene accolto con fitte salve di fischi e lanci di pietre. Al primo sermone dal pulpito, egli ne approfitta per sfogare la sua rabbia con improperi e maledizioni. Ma bastano pochi giorni perché, incuriosite e sollecitate dalle voci che corrono si «stu verre lihunine”, le donne vadano a frotte da lui a scaricarsi dai peccati trasformando la chiesa in una piazza di mercato. Addirittura, col tempo Dommusé riesce ad imporre la sua autorità anche sugli uomini, benché appaia sempre più rotto a vizi d’ogni genere. Ma, una brutta notte, chiamato per assolvere l’anima di uno sconosciuto, viene assalito da una banda di briganti, capeggiata da «Nnecole lu curnute», e viene fatto fuori a coltellate. Il suo corpo viene gettato in un burrone. Fine amara di un'esistenza votata al proprio dissolvimento. Una storia non recente, questa, che si raccontava tra i roccolani, e che il poeta ha voluto raccogliere «nndu’e crude», anche per gli insegnamenti che se ne possono ricavare.
Al modo di un antico cantastorie, Tontodonati è capace di calarsi e immedesimarsi nelle figure e nelle vicende della sua materia ispiratrice, che arricchisce con inserti un po’ diva genti, ma atti a rallentare il ritmo lirico-narrativo senza tuttavia nuocere al tessuto unitario del canto. Nell’ultima parte della trilogia, ad esempio, si trova spazio per accennare alla presenza polemica di Pier Celestino, con un salto indietro di alcuni secoli, ma solo per riflettere sulle piaghe della Chiesa d’ogni tempo. Frequenti sono, poi, certe pause descrittive, in ordine al paesaggio, agli usi e ai costumi; e certe pause meditati ve, vero e proprio “cantuccio’ che il poeta si riserva, alla maniera manzoniana, per abbandonarsi più liberamente alla confessione dei suoi sentimenti.
La seconda trilogia, che s’intitola Terra Iundane, è tutta una evocazione nostalgica e insieme un omaggio devoto, dalle brume del Nord, perla terra natia. I/titolo è mutuato da un primo gruppo di componimenti dedicati al paese d’origine, San Valentino, e ai paesi viciniori, ritratti felicemente nelle costumanze della loro gente, ma anche nelle ansie e nelle fatiche, nelle feste e negli svaghi che ne cont rassegnano le antiche tradizioni. Sullo sfondo delle piccole vicende e delle umili figure che vi campeggiano, il poeta lascia intra vedere gli eterni problemi del nascere e del morire, problemi che in Abruzzo conservano il fascino dei misteri sacri, su cui aleggia la volontà dei Santi protettor4 i quali però devono anche piegarsi - come gli déi pagani - a quella invincibile dei fati.
Il secondo gruppo dei componimenti della trilogia comprende, come dice lo stesso titolo, solo dei «recurde pescarise»: rivolgendosi all’amico poeta e critico Ottaviano Gian
nan geli, che per curare la «tigne» di città se ne «schippe alla case de Rajane», Tontodonati indugia nel rievocare fatti e momenti, amicizie e conoscenze, che lo legano alla città dannunziana, sul filo di un recupero memoriale animato dal bisogno di ritrovare brandelli d’un passato caro al suo cuore.
La seconda trilogia si chiude con Lu piocule Resurgemende, epica celebrazione dell’Abruzzo carbonaro e più segnatamente della rivolta del «pòpele angulane / upprésse da Muratte Giuvacchine”. Per la verità, dai moti liberali di Penne (1814) si passa, con un volo che potremmo dire pindarico, all’unità d’Italia, agli orrori dei recenti «anni di piombo» dominati dalla ~‘Ppi Trendotte», fino all’eccidio Moro e alla strage di Bologna, per sottolineare l’assenza di progresso reale nella storia, se è vero che «Cajjine, ajécche, accid’angor’Abbèle”.
A mo’ d’appendice alle sue trilogie, si trova una raccoltina di «framminde»: si tratta di versi scritti nell’ultimo biennio e ispirati alle occasioni più varie, come la morte di una balene sulla spiaggia di Ortona, il terremoto d’lrpinia e della VaI di San gro, la ricorrenza della Perdonanza celestiniana, il traforo del Gran Sasso, ecc- Tutta una materia viva e attuale, che conferma una franca disposizione del poeta all’impegno etico-civile.
Opera imponente, nel complesso, con i suoi 411 sonetti. L’attento lettore noterà che solo in premessa o come intermezzi tra le varie parti delle due trìlogie sì trovano altre forme di componimento (quartine, sestine, ottave). Per tutto il resto c’è una fedeltà al sonetto dawero sorprendente ai tempi d’oggi, a testimonianza di una scelta tecnico-espressiva in perfetta armonia con una tradizione letteraria che non teme confronti.
Altro dato sorprendente è la fedeltà di Tontodonati alla parlata autentica della terra natia: discendente da antico ceppo abruzzese, come egli stesso ha dichiarato, è capace di scrivere così come pensa direttamente in dialetto, non solo in ordine al tessuto lessicale, ma anche in ordine alle strutture morfologico-sintattiche.
Può accadere tuttavia che, passato a trattare tematiche moderne - per cosi dire -non totalmente ricoriducibili all’uso vivo della parola d’un tempo, si avverta un certo sforzo d’invenzione che solo in apparenza sa d’arbitrario, poiché in effetti rischia ben poco o nulla sul piano della spontaneità, mentre si risolve certamente in un apprezzabile arricchimento della parlata natia. Si tratta, in fondo di operazioni abbastanza frequenti nella poesia dialettale d’ogni regione, con risvolti molto complessi riguardo alla questione dei rapporti tra i dialetti e la lingua nazionale.
Molto, infine, resterebbe da dire sulla scrittura adottata da Tontodonati, ma qui basti solo rilevare che essa è di tipo prevalentemente fonetico e perciò comporta, in ordine alla struttura sillabica del verso e conseguentemente nella lettura, delle soluzioni che risultano spesso in contrasto con quelle suggerite da una scrittura etimologico-lettera ne. Ma sanno tutti ormai che si tratta di accorgimenti tecnici attinenti alla scienza del dialetto più che alla poesia in dialetto, accorgimenti che in passato divisero finanche le voci più alte del Parnaso dialettale d’Italia, e non solo d’Abruzzo. La tecnica, a nostro giudizio, senz’altro importante eppure variabile da autore ad autore (e perfino da momento a momento nello stesso autore), è solo uno stumento, laddove il fine ultimo, invariante e invariabile, da perseguire in ogni caso, resta la poesia. E nessuno può dubitare che a questo fine, appunto, Giuseppe Tontodonati abbia indirizzato tutto il suo impegno, con pieno successo, sì da poter essere annoverato tra le figure più rappresentative del nostro secondo Novecento.
2) “NU OUATRARE”: MEMORIE NEL TEMPO (LINGUA E DIALETTO)
Poeta dalla vena feconda, Giuseppe Tontodonati, anche dopo aver riordinato e in parte ritoccato nel Canzoniere d’Abruzzo quanto aveva già pubblicato in precedenza, nella convinzione di poter offrire tutto se stesso in un ‘opera compatta, non credette mai di dover deporre la penna, avendo ancora molto da dire. Addirittura, ancor prima che uscisse il Canzoniere, aveva già predisposta perla stampa un ‘altra densa raccolta dal titolo Nu quatrare (memorie nel tempo - lingua e dialetto), contenuta in due fascicoli con copertine plastifica te.
Si tratta di un ‘opera bilingue, come si avverte nel sottotitolo. Ed è sorprendente il fatto che le poesie in italiano siano frammischiate a quelle in abruzzese senza un criterio identificabile con chiarezza, salvo quello di una possibile connessione di natura psicologica attraverso fatti e figure disseminati nel tempo e riconducibili in gran parte alla giovinezza e alla terra natia.
Per opportunità d’analisi e d’interpretazione diacronica, visto che nasce prima il poeta in lingua e poi quello in dialetto (anche se poi, nella maturità, procederanno insieme senza conflitti), noi faremo distinzione tra poesie italiane e poesie abruzzest pur essendo da sempre convinti che sul piano espressivo lingua e dialetto si equivalgono pienamente, nel senso che hanno le stesse potenzialità creative.
Comunque, in ossequio alla volontà dell’autore, elencheremo qui di seguito tutti i titoli delle poesie secondo l’ordine di successione da lui stabilito nei due fascicoli.
Primo fascicolo:
“Lo spauracchio” (1931), “La vena” (1936), “A Gilda” (1986), “Ruselle de fratte” (1963), “Lu fahònie”, “Uhé pilligrine”, “Cumménde d’Ocre”, “Gli scavezzacolli” (1938), “L’andefatte”, “La crise de guverne” (1986), “Il tempo de la vita” (1938), “Chi ci’, “Nuvela d’ore” (1966), “Flaiane ‘86”, “La tempesta” (1981), “A Fidiriche Garcija Lorche” (1986), “Il verbo della violenza”, “La città ferita”, “Ma l’alba è ancora lontana” (1978), “Lu libbre” (1986), “Sa’ Mmartine”, “O Carulì” (1975), “Risveglio”, “San Martino”, “Dolomiti”, “Sa’ Mmartine de Castròzze’ “Le pale”, “Che pparadise... “(1986), “Abruzzo” (1938), “Pietranìche” (1978), “Chjite” (1987), “Lu sul-date” (1986), “L’Ariete” (1941), “La vedetta di monastero” (1941), “La mitraglia” (1941), “Piesteritz” (1944), “0 Wittembérghe de Sassonie’ (1944), “lI prigioniero” (1944), “Pianto di stelle” (1944), “0 Vittembérghe, dell’Erbe alle spònne , “Séte remaste ferme, sull’atténde” (1986), “Centenario leonardesco” (1952), “Lu bbaròcche”, “Serge à’rrevate da Mundecatine” (1986), “I ciechi del Brueghel” (1953), “Serramunacesche” (1979), “L’Arcàngele” (1986), “Duminiche Strumè” (1986), “Lu done” (1986), “Il sentiero” (1955), “La vetta” (1955), “Lucchie dell’amore” (1978), “La suménde” (1987), “E sso trendànne”, “A Gilde” (1987), “Prati di selva” (1960), “Lu zicchine d’ore” (1987), “Petagure, cia lénde e la clissìidre” (1987), “Sasse di Viche” (1987), “Bocca Matté”’ (1987), “Spiaggia curzare” (1979), “Reychiev[cche” (1986), “Qualcosa si è rotto” (1982), “La feste de lu vine” (1984), “Lu tembe de nu vàsce” (1987), “Guàrde che serène” (1987), “Autunno” (1962), “Chelu monde de fòjje” (1987), “Rosa d’uttòbre” (1987), “A Dunatù1 (1981), “Mo’ cale lu sepàrie” (1987), “Come piange la campana” (1936), “Che céle grìgge” (1987), “Càsche le fojje” (1987), “La notte del tempo” (1965). “La staggiòna morte” (1987), “Lu pettaròsce” (1987), “Lu merle e lu pettarrosce (1987), “Michettina” (1953), “Lu Parlamende” (1987), “Assise ‘86” (1986), “Ave Maria” (1965), “Cumblehànne’ (1987), “Ritratto” (1946), “Lu purtàle de Sand’Ahustine” (1987), “Padre Pie” (1987), “Sa’ Malindìne” (1982), “Lu citele” (1951), “La Linda nostre” (1986), “L’urzocchiòtte de vellute” (1966), “Sand’Ufémie a Majelle” (1978), “Lu Pàlie” (1987), “Come le nubi - così le foglie” (1935).
Secondo fascicolo:
“Flaiane ‘87”, “Lu vijagge” (sette sonetti, 1987), “Ridenti colli di Castellammare” (1968), “Frendànie” (15 sonetti, 1987), “Lu travocche” (1983), “La v(tteme’, “Valle d’Urfénde”, “La nave” (a Pietro Casce/la, 1987), “Mareggiate” (1989), “Lu mare sta murenne” (1980), “La nostra casa sul mare” (1971), “Alma Matre” (1987), “Hajje ngundràte sott’a lu vultàne” (1987), “A Erneste Giammarche” (1987), “Nu traguàrde” (1987), “Summitte 1110” (1987), “Tra stélle e stàlle”(1988), “Li pataccàre”(1988), “Lu ggiardine’ (1988), “Ci stive tu e bbi” (1988), “Memento”, “Chell’teme trene” (1988), “Carnavàle” (1988), “Cumblehànne ‘88”, “Il canto dell’usignolo” (1968), “D’Annunzijane” (1988), “L’lmmagginifeche” (1988), “Lu ciarfajatòre” (1988), “A Francesche Desidene” (1988), “Giustine Scasse...”(1988), “Rocche Di Cenze, vjicchie tamurràre” (1988), “Rimani” (1975), “A Francische-Pàule Michette” (1988), “La Ronde de notte” (1988) “A Néstore del Bocce” (1988), “A Umbérte Pustigliòne” (1988), “Nu sacrelégge” (1988), “La ballata del vecchio zingaro”, “L’anziàne” (1988), “Nu bbaròne cruciate” (1988), “Lu còre di Siene” (1988), “Lu Dame” (1988), “Cuvat’Ahustaròle” (1988), “Costa di Chiéte” (1988), “Sand’Amate” (1988), “Alba in Castrozza” (1988), “Bbàita Segandìne” (1988), “Lu ponde de lu sole” (1988), “Verze l’ulucàhuste” (1988), “La Karin B.” (1988), “A Paola Bernardoni morta quattordicenna” (1988), “Sand’Andonie restaurate” (1988), “Madonne de la Croce arcunzacràte” (1988), “L’autunne” (1988), “Lu sseijòne” (1988), “Albiriche” (1988), “L’eroe: La mamme, Luna piène, Adige” (1988), “Pace chiedea” (per i morti dell’Adamello, 1956), “La pietà novella” (1956), “Upraziòne Nettune” (1988), “Li ggiahànde de préte” (poemetto, 1989), “Il forziere” “Commiato”.
Data la vastità delle due raccolte, si può supporre che l’Autore ne potesse ricavare due pubblicazioni diverse, anche se il secondo fascicolo non reca un titolo a sé. Complessivamente abbiamo 160 poesie, di cui alcune molto lunghe: il primo fascicolo ne contiene 95, per un totale di 65 fogli, dattiloscritti nel recto e nel retro; il secondo fascicolo ne contiene 66, per un totale di 63 fogli, battuti anch’essi nel retro, ma vi è compreso un poemetto, dal titolo “L ‘eroe”, che comprende quindici sonetti, accanto ad altri componimenti di più pagine.
Stando alle date di composizione indicate a pie’ di pagina (pochissime quelle che ne sono prive), si è potuto accertare che queste poesie inedite abbracciano l’arco di circa un sessantennio, esattamente dal 1931 al 1989. Sarà opportuno anche precisare che le poesie del primo fascicolo non vanno oltre il 1987, mentre del secondo vanno dal 1956 al 1989, ma per la maggior parte sono dell’88.
Di qui si può dedurre che si deve ritenere errata la data “Bologna, luglio 1986” indicata nel foglio d’apertura del primo fascicolo, recante il nome dell’autore, il titolo e il sottotitolo generale, già riferiti. È probabile che da quella data l’autore si sia accinto al riordinamento d’un così vasto materiale: oppure che a quella data si sia compiuto un primo recupero delle poesie non confluite in precedenti raccolte.