Enzo Fimiani
Enzo Fimiani - Nato a Pescara nel 1959, è bibliotecario, è stato direttore della Biblioteca Provinciale «G. D’Annunzio» di Pescara e attualmente dirige il polo bibliotecario dell'Università Chieti-Pescara. Ha insegnato a lungo Storia contemporanea e Storia dei partiti politici nell’Università «G. D’Annunzio» di Chieti-Pescara; oggi è docente di «Ricerca e documentazione storica on-line» presso l’Università telematica «L. da Vinci» di Chieti. Fa parte di vari centri di studio a livello nazionale. È stato direttore di «Abruzzo Contemporaneo. Rivista di storia e scienze sociali» e componente del Comitato direttivo dell’Istituto abruzzese per la storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea. Ha pubblicato molti volumi e saggi di storia moderna e contemporanea sui seguenti temi: guerra e società; plebisciti e principio plebiscitario nella storia europea; potere politico e consenso di massa; propaganda politica ed elettorale; fascismo e nazionalsocialismo; storiografia e metodologia della storia.
Introduzione Storica al volume "Da Lu Piccule Resurgemende a Porta Pije"
“Nulla so delle mille sfaccettature che riempiono la sapienza del dialetto come codice linguistico, espressione culturale e segno del tempo lungo delle tradizioni. E infatti altri, non a caso con più saperi di me, scrivono qui sulla lingua di Giuseppe Tontodonati. Ho accettato di presentare questa silloge poetica, dunque, per altre ragioni e, forse, altre competenze. Essa, una volta letta, non mi si è presentata agli occhi e alla mente come il frutto di una “distrazione” dell'autore dagli affanni della vita, come un semplice divertissement fine a se stesso ed utile solo nella ristretta cerchia delle ragioni personali, delle relazioni familiari o amicali. Se così fosse stato, avrei chiuso le bozze, ringraziato l'ammirevole figlio Raffaello – che tanto impegno vi ha profuso – e declinato l'invito. Al contrario, le poesie di Tontodonati mi hanno motivato quasi naturalmente ad “andare oltre”, per così dire, a trarne spunti per riflessioni di più ampia portata: sollecito il lettore a considerare che ciò non era così scontato e a voler leggere i versi del libro con l'apertura mentale che mi sembra meritino. Credo difatti che la pubblicazione di questa raccolta di componimenti in dialetto abruzzese sia lungi dal rappresentare l'ennesima riprova degli annosi vizi del localismo italiano. Non siamo davanti ad una delle innumerevoli stazioni del rosario – ahinoi sempre fecondo – composto dalle mille piccinerie del borgo natìo o dall'esercizio di colte erudizioni, appunto, fini a se stesse. Questa selezione, raccolta dagli eredi di Tontodonati, vorrebbe invece costituire un contributo, per quanto sui generis, al più vasto dibattito pubblico e culturale che, sia a livello nazionale, sia in Abruzzo, è già iniziato da mesi e che conoscerà il suo culmine nel corso del 2011, centocinquantesimo anniversario della proclamazione formale, nel marzo del 1861, del nuovo Regno d'Italia finalmente unificato (dibattito un po' in chiaroscuro ma certo, non va taciuto, con più “scuri” che “chiari”, zavorrato com'è dalle tossine delle contingenze della politica).
Mi rendo conto che ho appena scritto “anniversario” e subito mi si è accesa una spia mentale: troppo spesso, infatti, nei decenni di questa nostra Italia repubblicana e democratica – che non sempre ha saputo costruire un rapporto lineare, sano e consequenziale con il proprio passato storico e le sue inevitabili antinomie – il termine “anniversario” ha fatto rima con “celebrazione”, e a sua volta quest'ultimo si è fuso con la parola “retorica”. Troppa polvere retorica, in effetti, si è accumulata nel tempo sopra le date-simbolo e i principali nodi della storia italiana dall'Unità ad oggi, per non doversi far venire dei dubbi ancora oggi, al ripresentarsi puntuale di una ricorrenza così significativa come il primo (e, data la situazione politica che ci circonda, speriamo non ultimo!...) secolo e mezzo di vita unitaria dell'entità statuale e nazionale che abbiamo chiamato, e nonostante tutto ci ostiniamo a chiamare con una certa fierezza, “Italia unita”.
D'altronde, è come se degli anniversari non si potesse fare a meno, per alcuni versi. Essi hanno comunque, in sé, la capacità meritoria di (provare a) riportare all'attenzione pubblica avvenimenti che hanno segnato e non poche volte continuano a segnare la vicenda collettiva di una comunità civile raccolta in Stato. Essi di conseguenza attengono, per definizione, al passato, alla storia pregressa di un popolo e di un complesso organismo istituzionale che ne è l’attuale espressione. Allo stesso modo, però, gli anniversari appartengono anche al presente che di quella storia costituisce la naturale sedimentazione stratificatasi nel corso del tempo che definiamo “storico” (vale a dire basato su scansioni e unità di misura secolari, molto più ampie del nostro individuale “tempo biologico”). Il richiamo a questo nesso passato/presente potrebbe costituire una constatazione del tutto banale, se non fosse che le medesime ricorrenze finiscono spesso per condizionare, in una misura molto maggiore di quanto si possa credere, il presente – e con esso il futuro! – di un’area nazionale. Interpretare in un senso piuttosto che in un altro alcuni dei tornanti storici decisivi di una res publica e i loro intrecci reciproci, nonché la trama delle tensioni sociali e politiche che inevitabilmente compongono la storia di un popolo, significa infatti orientarne il discorso pubblico dell’oggi e le prospettive del domani, marcarne gli idiomi politici, definirne l’educazione nazionale e quindi, in certo senso, il sentire condiviso.
Da ciò si deduce che gli anniversari, presi in sé e per sé, nella loro ripetitiva e periodica ritualità, significano poco. Essi sono meri accidenti della storia, prodotti del “caso” che – attraverso la miscela di combinazioni storiche di lungo periodo, varie e spesso controverse – determina infine il compiersi di un certo avvenimento in questo o in quell'anno nel corso del tempo che, inesorabile, procede. Per intenderci: l'annus mirabilis 1860 fu il periodo breve durante il quale venne a maturazione un ben più lungo processo storico (e, non a caso, ormai gli storici parlano con sicurezza di “lungo Risorgimento”, cominciato non già con il cosiddetto “decennio di preparazione” precedente il 1860, bensì molto prima, negli ultimi anni del XVIII secolo, sulla spinta dell’affacciarsi e del diffondersi, anche nella periferica penisola italiana, delle idee illuministe e rivoluzionarie). Tale “maturazione”, però, avrebbe potuto benissimo verificarsi – che so – nel 1865 o 1869 o 1871, se per mille ragioni possibili fossero mutati i componenti, nonché le conseguenti aggregazioni “chimiche”, dell'alchimia storica che infine avrebbe consentito al processo di unificazione nazionale italiana di giungere al termine. Ora, pertanto, ci troveremmo a dover attendere qualche anno ancora il fatidico “anniversario”. Ciò, però, senza dover cambiare i contorni storici e l'importanza dell'avvenimento, e soprattutto senza dismettere (appunto per un “anniversario” contingente) l'indefessa opera di studio, conoscenza e riflessione su di esso e senza stravolgere il giudizio storico su uno dei momenti fondanti del nostro essere italiani del XXI secolo. Voglio dire, in altri termini: ciò che conta non è la “casualità” che il centocinquantesimo anniversario ricorra proprio in questi mesi oppure nel 2015 o 2019 o 2021, bensì la percezione pubblica che si ha dell'evento. Quando prende il sopravvento, invece, la pura forza rituale e celebrativa della ricorrenza, che quasi ci coglie di sorpresa e per certi versi ci “obbliga” a celebrare piuttosto che a pensare – cioè a compiere un'operazione di gran lunga più semplice rispetto ad una che si rivela assai più faticosa e complicata – si rischia di scadere proprio nella ritualità, che allontana (soprattutto i giovani, attenzione!!, sempre così scevri dalle retoriche dei padri) dalla cosiddetta “storia patria”. Addirittura, gli anniversari vissuti per anni e anni in un simile modo rischiano di indebolire il tessuto connettivo di un'area nazionale e dunque di rivelarsi piuttosto dannosi. Invece di essere occasione di riflessione profonda e collettiva sulla storia comune, infatti, oppure di analisi pubblica dei momenti di svolta del nostro passato, guardati in tutte le loro contraddizioni ma anche in tutti i loro lati positivi, essi per un verso si scoprono ingabbiati nella stanca e asfittica ritualità celebrativa che spesso piove dall'alto, mentre per altro verso finiscono per lasciare campo aperto e per dare fiato a interpretazioni distorte di tale storia.
Queste ultime (in Italia è ormai il tempo di chiamare le cose con il proprio nome) sono quasi sempre basate su “riscritture” dovute alle contingenze dell'attualità, agli interessi e alle beghe della politica che spinge per una presunta “revisione” della storia nazionale tramite gruppi di potere o partiti non certo amici della democrazia unitaria che chiamiamo Italia, la quale va considerata come il punto di arrivo di una vicenda storica contraddittoria ma che oggi sarebbe un errore gravissimo – e foriero di enormi pericoli – gettare via. D'altro canto, sappiamo tutti bene come una quota di sano e serio e fondato “revisionismo” sia il propellente e il sale stesso del lavoro dello storico. Ben altra cosa, però, è il “revisionismo” di matrice politica, che non è affatto basato sulle fondamenta scientifiche del lavoro storiografico, bensì sulle spinte dovute al cosiddetto “uso pubblico della storia”, cioè ai “pre-giudizi”, alle ignoranze, alla volontà di piegare la storia agli interessi di parti politiche che non compiono il duro lavoro dello studio e della conoscenza del passato. Esse invece si limitano a “riscriverlo” in base a tesi pre-costituite. Lo fanno pur non mostrando, oggi, neppure lontanamente alcuna delle qualità (tanto per rimanere in tema) della così bistrattata classe politica che si trovò a gestire, tra mille difficoltà, limiti, errori, il delicatissimo passaggio dell'Italia da semplice “espressione geografica” sulla carta d'Europa a nazione indipendente e unificata. Quando il revisionismo, inteso in questa seconda accezione, comincia a permeare larghi strati della società e a imporsi a livello di opinione pubblica – la quale, inevitabilmente, è spesso indifesa di fronte a campagne mediatiche che nulla hanno a che fare con la ricerca storica e i suoi metodi scientifici – finisce per formarsi, nel fluire degli anni, una lettura pericolosa e distorta di un determinato “passato”, più o meno diversa dalle precedenti oppure addirittura opposta. Tale lettura tende a sedimentarsi e, tornando alla ribalta pubblica in ricorrenza annuale, condiziona la medesima identità complessiva di un paese, il senso civico che permette ai cittadini di riconoscersi nel proprio Stato e quindi in se stessi, in definitiva la ragion d’essere di un'area nazionale all’interno del più vasto e interdipendente e complesso mondo.
Alla luce di considerazioni del genere, si sarà compresa l'importanza cruciale che attribuisco ad un corretto approccio nei confronti del “centocinquantesimo” in atto e soprattutto del suo “clou” ormai in arrivo nel 2011. In sintesi: invece che farsi imbrogliare da revisioni “a tesi” della storia patria e considerare l’Unità una sorta di iattura dalla quale sarebbero derivati tutti i mali italiani che ancora scontiamo sulla nostra pelle di cittadini, occorre al contrario studiare e conoscere il momento risorgimentale, così da poterlo osservare davvero nel suo volto, vale a dire evidenziandone le luci e i vantaggi, ma anche senza disconoscerne le serie manchevolezze, le speranze democratiche tradite e le questioni apertesi o lasciate insolute ed anzi aggravatesi con l’unificazione (questione meridionale, questione cattolica, struttura accentrata dello Stato…). Abbiamo bisogno di una visione che definirei più “larga” del nostro momento fondante, che dia sì spazio alle mille storie e alle diverse facce risorgimentali che sono uscite come schiacciate dall’esito finale sotto la dinastia del Savoia, ma che non ci faccia sfuggire di mano il senso ultimo e positivo della raggiunta unificazione, che ci ha proiettati come nazione ad affrontare le sfide della modernità politica, sociale, economica, impensabili da affrontare ancora come una congerie di più o meno solide entità statuali divise tra loro, eredi di un passato di frammentazione, debolezza, difesa del proprio particulare. In tal senso, le poesie di Giuseppe Tontodonati ci dicono molte cose, sia a livello abruzzese, sia nel più esteso contesto nazionale. Prima di tutto, la statura culturale dell’uomo, testimoniata dalle vicende della sua vita – tra l’Abruzzo e Bologna, in un costante impegno di serietà, di cittadino e uomo colto – ci conferma che siamo di fronte ad un personaggio capace davvero di re-interpretare poeticamente (e con alto spirito etico-civile) gli eventi, le contraddizioni, appunto le luci e le ombre attraverso i quali si sarebbe compiuto il processo di unificazione nazionale nell’Italia dell’Ottocento. In secondo luogo, la sua sensibilità poetica è stata capace di trasfigurare i sentimenti popolari legati storicamente ad alcune delle tappe più significative ed emblematiche del Risorgimento e delle sue immediate conseguenze. In terzo luogo, dalle tre sezioni nelle quali sono divise le poesie di Tontodonati emerge una specifica realtà degli Abruzzi variegata, di sicuro immersa nel suo mondo tradizionale, nelle plurisecolari consuetudini, nelle gerarchie sociali consolidate, ma anche capace di inserirsi a pieno titolo nella Storia “grande” dell’unificazione: il “piccolo Risorgimento” abruzzese, con i suoi moti carbonari per molti versi precursori di altri moti similari avutisi su più larga scala in altre realtà della penisola, ha funto da “apprendistato” alla democrazia per le nostre terre e ne ha fatto luogo di sperimentazione per le idee nuove che erano venute d’Oltralpe e per la loro rielaborazione italiana democratica e mazziniana; dal canto loro, la cesura storica di “Porta Pia”, la fine del potere temporale della Chiesa cattolica, l’elevazione di Roma a capitale dell’Italia unita, sono stati perfettamente colti da Tontodonati quali eventi fondatori (forse ancor più del tornante del 1860!!) della modernità istituzionale e civile dell’Italia; infine, nei versi dialettali qui presentati si staglia il grande tema del brigantaggio, detto sbrigativamente “postunitario”, ma in realtà derivato da pregresse esperienze abruzzesi e in genere meridionali, da condizioni quasi endemiche di “rivolta” contro l’ordine costituito, gli immutabili assetti sociali ed economici, la presenza di uno Stato spesso non amico.
A maggior ragione le poesie di Tontodonati possono dunque contribuire al dibattito sul centocinquantesimo, perché proprio il Risorgimento italiano è oggi al centro dell'uso pubblico della storia nel nostro paese, di alcune delle principali polemiche politiche che ci avvelenano la vita e sono nemiche della conoscenza e della cultura. I suoi versi, nei quali anche la lingua abruzzese “suona”, penso siano un buon antidoto per noi cittadini”.
Enzo Fimiani - Novembre 2010